Nonostante la sola sospensione di sei mesi dell’acquisto e la conferma dell’adesione al programma dei nuovi cacciabombardieri, qualcosa si è inceppato.

Qualcosa si è inceppato nel pendolo che, con perfetto movimento bipartisan, ha fino ad oggi regolato la partecipazione italiana al programma statunitense del Joint Strike Fighter, il nuovo caccia della Lockheed Martin, ribattezzato F-35 Lightning. Perché è stato il governo D’Alema nel 1998 a firmare il primo memorandum d’accordo per partecipare al programma Jsf. È stato quindi il governo Berlusconi a firmare nel 2002, per mano dell’ammiraglio Di Paola (allora direttore nazionale degli armamenti), l’accordo che impegna l’Italia a partecipare al programma come partner di secondo livello. È stato nel 2007 il governo Prodi a perfezionarlo e a decidere l’acquisto di 131 caccia. È stato nel 2009 di nuovo un governo Berlusconi a deliberare l’acquisto dei 131 caccia. È stato nel 2012 il governo Monti a «ricalibrare» l’acquisto degli F-35 da 131 a 90 per dimostrare che tutti, di fronte alla crisi, devono stringere la cinghia. È stato nel 2013 il governo Letta a far capire, per bocca del ministro della difesa Mario Mauro, che gli aerei da acquistare dovrebbero essere più di 90 poiché c’é un precedente impegno parlamentare ad acquistarne 131.
Merito della mozione di Sel e M5S, che ha dato voce a quanti da anni si oppongono alla partecipazione italiana al programma dell’F-35, è quello di aver inceppato il meccanismo del consenso bipartisan. Per fare ciò si è fatto leva fondamentalmente sull’enorme costo dell’aereo, in gran parte ancora da quantificare, al quale – abbiamo già documentato sul manifesto – si aggiungono i costi operativi (almeno un miliardo e mezzo di dollari annui) e quelli ancora più ingenti per gli ammodernamenti e per i sistemi d’arma sempre più sofisticati. Restare nel programma significa quindi firmare un assegno in bianco, da pagare con denaro pubblico sottratto alle spese sociali.
Non ci si può però limitare alla questione del costo. Intervenendo ieri alla Camera, il ministro Mauro ha ribadito che gli F-35 sono necessari per sostiture i Tornado, gli Amx e gli Av-8b, arrivati al termine del loro ciclo di vita, aerei che hanno finora garantito l’«azione della difesa» che porta l’Italia a «ripudiare la guerra come strumento per la risoluzione delle controversie» e che allo stesso tempo rende necessario «il mantenimento al massimo dell’efficienza delle Forze armate». La questione di fondo su cui è chiamato a esprimersi il parlamento, sottolinea il ministro, è la seguente: «È pensabile ed è possibile, se amiamo la pace e vogliamo amare la pace, in alcune circostanze, armare le ragioni della pace?».
È questa la sfida da raccogliere non solo in parlamento ma nel paese. La questione dell’F-35 è infatti indissolubilmente legata alla politica militare, strumento della politica estera. Dobbiamo dire no all’F-35 perché è un pozzo senza fondo che ingoia miliardi di euro, pagati con denaro pubblico, perché sottrae risorse alle spese sociali per arricchire i grossi azionisti delle industrie belliche. Ma allo stesso tempo perché è concepito – lo spiega la stessa aeronautica militare – per «la proiezione in profondità del potere aereo», ossia per le guerre di aggressione. Altro che umanitarie. E perché rende l’Italia, tecnologicamente e militarmente, ancora più dipendente dagli Stati uniti.
Come abbiamo già detto, i piloti e i tecnici dell’F-35 saranno formati negli Stati uniti e verranno di conseguenza a dipendere dalla U.S. Air Force più che dall’aeronautica italiana. Gli F-35 «italiani» saranno integrati nel sistema C4 (comando, controllo, comunicazioni, computer) Usa/Nato: saranno quindi di fatto inseriti nella catena di comando del Pentagono. Sarà questo a decidere il loro impiego in una guerra e ad assegnare loro le missioni da compiere. Va ricordato a tale proposito che le 90 bombe nucleari statunitensi, stoccate ad Aviano e Ghedi-Torre, saranno trasformate in nuove bombe nucleari a guida di precisione, particolarmente adatte ai nuovi caccia F-35.
Questo caccia di quinta generazione serve quindi non ad «armare le ragioni della pace» ma ad armare le ragioni della guerra. Serve ad una politica militare ed estera che, nell’alveo di quella Usa/Nato, assume caratteristiche sempre più aggressive, camuffate dal paravento delle «missioni di pace». Violando quell’articolo 11 della Costituzione che il ministro Mauro (laureato all’Università Cattolica del Sacro Cuore) ha la faccia tosta di recitare.