«L’attitudine al cabaret distingue un corpo sociale, spesso contrassegna un’epoca. In Italia il cabaret non ha mai attecchito, o almeno non è mai diventato un elemento di costume stabile». Così scrive Umberto Eco nel dicembre 1963, indicando poi nella «canzone di rottura» (contrapposta alla «canzonetta» in termini tanto letterari quanto musicali) il possibile terreno di sviluppo per una via italiana al cabaret. Che infatti prende forma proprio in quel volgere di anni legandosi alle stesse scene della nuova canzone — Genova, Roma e soprattutto Milano — e ai loro peculiari bilanciamenti tra influenze internazionali e tipicità locali. Nel capoluogo lombardo, ad esempio, la ricetta parigina tardo ottocentesca viene adattata agli ingredienti della città che meglio simboleggia il Boom, tra case di ringhiera e cave alla francese come il Santa Tecla e il Derby, inconsapevoli laboratori artistici in cui la musica convive con la parola. Di questa eredità cittadina ad ampio spettro Milano ha iniziato a prendersi cura sulla scia del ricordo. È successo con Dario Fo ed Enzo Jannacci, succede in parte anche con Nanni Svampa, a cui martedì prossimo sarà dedicata Svampeide, una giornata di studi al Teatro Elfo Puccini organizzata dall’associazione che porta il nome dell’artista milanese scomparso nel 2017.

UNA FIGURA, la sua, ben rappresentativa di quella irripetibile rete sociale formatasi attorno al Derby e a simili spazi condivisi, i cui nodi più eminenti hanno i nomi degli stessi Fo e Jannacci, di Giorgio Gaber, Walter Valdi, Cochi e Renato. Una figura di cui è ancora piuttosto agevole ricordare l’avventura con i Gufi, dal cui albero genealogico spiccheranno il volo anche Elio e le Storie Tese. Meno immediato riscoprirne la ricerca etnomusicologica, l’impegno politico e letterario, l’anticlericalismo di stampo francese: tanto vale ricordare che fu Nanni Svampa il primo a importare Brassens traducendolo in italiano e in dialetto. La scelta vernacolare, peraltro, ha spesso fatto da scudo contro la censura della Rai di Bernabei, al tempo stesso veicolo e oggetto di una satira diretta verso i paradossi dell’Italia borghese e democristiana nella quale «è d’obbligo sentirsi tutti un po’ fratelli» (È la domenica il giorno del Signore). Questi e altri approfondimenti sono all’ordine del giorno della Svampeide, tra i cui ospiti figurano il critico musicale Enrico De Angelis, Enrico Intra — primo direttore artistico del Derby — e il jazzista Lino Patruno, unico superstite dei Gufi. Un’alternanza di testimonianze dirette, una memoria storica aperta da una riflessione sull’umorismo svampiano curata da Flavio Oreglio, che a questa eredità locale e nazionale si è dedicato in prima persona facendosi promotore dell’Archivio Storico del Cabaret Italiano. Una ricerca i cui primi frutti hanno dato vita al libro L’arte ribelle (Sagoma, 2019), nel quale Oreglio cerca di scardinare l’erronea equiparazione tra il cabaret, la comicità e il ridere in senso lato; un equivoco radicato a partire dalla fine degli anni Settanta, «quando nel sistema mediatico allora in espansione iniziò a comparire la distorsione semantica del termine» e perpetuato fino ad assumere i tratti di «un vero e proprio delitto linguistico-culturale diventato poi, nel corso degli anni, ignoranza collettiva». Un Drive In cronico, insomma, le cui risate grevi hanno seppellito l’impegno dei decenni precedenti, disseminando da nord a sud un’eredità di segno opposto ma almeno altrettanto ingente. Un Riflusso riflesso (per citare un altro titolo di Svampa) da cui però non è certo vietato guarire.