Quando nel maggio 1929 Vittorio Emanuele III si presenta in visita ufficiale nelle isole del Dodecaneso e incontra i maggiori esponenti della comunità ebraico-sefardita locale, non immagina minimamente quello che accadrà da lì a pochi anni a migliaia di chilometri di distanza, nel sud-est congolese, e che vedrà protagonista proprio parte di quella comunità. In quell’occasione il re d’Italia fa la conoscenza del Gran Rabbino Elia Izraël e del presidente della comunità, Hizkia Franco, ai quali dona quattromila lire per ringraziarli delle opere di beneficenza compiute dai sefarditi nell’isola. Non era la prima visita ufficiale della famiglia reale nelle colonie egee: lo stesso Vittorio Emanuele III c’era già stato nel 1921, mentre nel 1928 era andato in visita il principe Umberto. A rendere curioso quest’ultimo viaggio è la tempistica: Vittorio Emanuele arriva nel momento in cui è più intensa l’emigrazione degli ebrei sefarditi verso l’estero, a causa principalmente della crisi economica degli anni Venti. Alcuni vanno negli Stati Uniti o in Argentina, altri in Sudafrica e in Rodesia, dove grazie alle miniere d’oro e di diamanti il lavoro non manca. È da lì che si formano le prime comunità in Congo, un paese che fino al 1908 era possedimento privato del re belga Leopoldo II (che però non ci ha mai messo piede, né mai lo farà) e che da poco è diventato una colonia vera e propria.

A Bruxelles vive oggi Malka Levy, figlia di Moïse Levy, rabbino di Elisabethville (l’attuale Lubumbashi) dal 1937 al 1991, anch’egli proveniente da Rodi. Malka ha mantenuto la nazionalità italiana, ed è lei a spiegarmi come, in breve tempo, il passaparola sul Congo, che veniva chiamato «la nouvelle Amérique», «la nuova America», si diffuse fra la comunità sefardita dell’Egeo. Più di duemila ebrei si ritrovarono a vivere in Katanga, nel sud-est del paese, zona di miniere dove vivevano anche altri italiani. Una storia particolare, quella degli italiani in Congo, che sembra anticipare emigrazioni più recenti. Già nel 1883, due anni prima della costituzione del fantomatico Stato Libero Indipendente del Congo, Leopoldo II invia una lettera ufficiale al re italiano, chiedendogli lavoratori e tecnici. Due anni dopo ne scrive un’altra, e così il Congo diventa, in un modo meno clamoroso, un’altra terra d’emigrazione, tanto che nel 1903 e nel 1904 i giornali locali scrivono, in francese, di una «époque des italiens». Ma cosa vanno a fare gli italiani in Congo? Vi sono medici, ingegneri, magistrati, certo, ma anche semplici agricoltori e lavoratori nelle miniere, che occupano un ruolo intermedio fra belgi e congolesi, fra colonizzatori e colonizzati. Non sono considerati bianchi, gli italiani in Congo, come non sono considerati bianchi negli Stati Uniti, in Australia o in Brasile, altre terre di emigrazione di quegli anni. Vivono fra i bianchi e i neri, in particolare a Elisabethville, dove il quartiere italiano è, anche fisicamente, fra quello congolese e quello belga.

Gli ebrei sefarditi provenienti da Rodi nel frattempo fondano una serie di negozi, mantengono la nazionalità italiana anche se parlano perfettamente francese, e la vita nella comunità si stabilizza, tutto sommato piacevole e simile in tutto e per tutto a quella dei coloni occidentali in un qualsiasi paese africano dell’epoca, con gite nella natura, domestici (i famosi «boy») e serate danzanti.
In quegli anni in Italia ci sono grandi cambiamenti: il biennio rosso, la marcia su Roma, il fascismo. Gli emigranti ora si chiamano italiani all’estero, non partono più per fame, ma sono i simboli del genio italico che si fa onore in tutto il mondo. Anche fra gli espatriati si formano i Fasci, e una Segreteria Generale dei Fasci all’Estero ha il compito di organizzarli e controllarli.

È proprio la Segreteria che nel 1933 commissiona un rapporto sugli italiani in Congo al professor Alessio Ammiraglio, che a proposito degli ebrei scrive come «in molti di essi questo sentimento si è tramutato nel desiderio di far parte dei Fasci, di accostarsi alle Autorità consolari, di dare insomma ai residenti nel luogo la dimostrazione di essere Italiani e Fascisti». Italiani e fascisti. A pensarci bene, sembra un corto-circuito storico: ebrei nati in Grecia o in Turchia, per anni sotto l’impero ottomano, poi italiani per via della guerra coloniale del 1911-1912. E ora emigranti, come altre migliaia di compaesani, in Congo. A mostrare la loro anima fascista.

La storia qui prende una piega ancora più paradossale, come ha svelato la storica Anne Morelli frugando negli archivi del ministero degli Esteri per un articolo degli anni Ottanta. I sefarditi del Katanga hanno una comunità florida, con negozi di tutti i tipi: bigiotterie, generi alimentari, saponi. Quando nel 1935 il console generale d’Italia a Leopoldville va a visitare la regione, in un viaggio lungo e piuttosto faticoso (fra Kinshasa e Lubumbashi ci sono quasi 4500 km e solo un tratto era coperto dalla ferrovia) invia a Roma un rapporto in cui scrive che «all’elemento schiettamente nazionale, è venuto ad aggiungersi negli ultimi tempi, un gruppo sempre più numeroso di Dodecanesini che si sono dedicati più di tutto al commercio con gli indigeni». Non ha tutti i torti, il console. A Elisabethville la famiglia Hasson, originaria di Rodi, ha aperto un negozio,  Au chic, in cui si vende a tutti, bianchi e neri, cosa che al tempo desta scandalo, poiché l’apartheid, non regolamentata come in Sudafrica, è una prassi comunque accettata.

I congolesi infatti compravano nei negozi dei bianchi, ma non potevano entrare e venivano serviti attraverso un lucernario. E solo dieci anni dopo, ma a Kinshasa, sarà un altro ebreo italiano di Rodi, Henri Palacci, ad assumere per primo cassiere nere, in quello che di fatto sarà il primo supermercato in Congo. Il console tutto sommato sembra soddisfatto del suo viaggio: la comunità italiana prospera, e anche se non vive nell’agio dei belgi, rimanendo pur sempre in una posizione «di mezzo», le condizioni economiche sono sensibilmente migliorate rispetto alle prime ondate migratorie. Certo, anche in Congo, come d’altronde nelle colonie italiane, c’è qualche «incidente», come sono soliti chiamarlo nei rapporti ufficiali: ma di solito è il Belgio che si occupa dei figli illegittimi delle coppie miste e li invia in collegi gestiti da missionari. L’ideologia fascista, poi, sembra ben penetrata nella comunità.

L’apice arriva l’anno successivo, quando l’Italia decide di invadere l’Etiopia e viene sanzionata dalla Società delle Nazioni in quanto aggressore di un paese membro. È il periodo dell’autarchia, della vicinanza fra Italia e Germania, del giorno della fede, in cui le donne italiane scambiano il loro anello di matrimonio d’oro per un equivalente di ferro. La comunità ebraico-sefardita di Rodi si mobilita: il viceconsole d’Italia a Elisabethville segnala «il patriottico comportamento dei dodecanesi israeliti di Rodi, costà residenti, nella manifestazione nazionale contro le odiose sanzioni». Inoltre, scrive al console di Leopoldville che la somma stanziata dalla comunità è «veramente cospicua, e la generalità delle adesioni è evidente».

Addirittura alcuni esponenti si offrono di anticipare al governo la somma per l’apertura di un consolato a Elisabethville, visto il numero crescente di italiani che ci vivono.

Il console viene a sapere anche altro: a Jadotville, l’odierna Likasi, una città mineraria del Katanga, è stato fondato un nuovo Fascio. È il 1936 e la notizia lo riempie d’orgoglio, così la comunica immediatamente alla Segreteria Generale dei Fasci all’Estero. Dopo di che scrive al viceconsole a Elisabethville, si informa, chiede un po’ in giro. Chi sono questi valorosi italiani che hanno fondato il Fascio di Likasi, a cosa dobbiamo questa spontanea manifestazione di italianità? Quello che viene a sapere però non gli piace per niente: l’intera comunità ebraico-sefardita è entrata a far parte del Fascio locale, costituendone praticamente la totalità. Ebrei, per di più di Rodi, infine turchi. Non ci pensa su due volte e con zelo decide di chiudere il Fascio, ma «senza che la Segreteria Generale dei Fasci all’Estero l’avesse autorizzato e questo Ufficio ne fosse tempestivamente informato», come racconta una nota più che seccata custodita nell’archivio del Ministero Affari Esteri.

Il console da parte sua ritiene di essere nel giusto, ha chiuso il Fascio per evitare ai suoi fondatori guai maggiori, ma ci tiene a precisare che la comunità ebraico-sefardita di Rodi mostrava «un certo orgoglio di sentirsi e dichiararsi italiani. Ora questi sentimenti è bene che siano favoriti e sviluppati nello stesso nostro interesse». Al che, per evitare guai in futuro, visto che la situazione in Europa per gli ebrei sembra precipitare, chiede esplicitamente come deve comportarsi con loro. La risposta arriva da Roma, ma in realtà è scritta dal governatore delle colonie dell’Egeo, un «esperto» in materia: «In generale i Dodecanesini sono sensibili al trattamento che viene loro usato e conviene quindi non offenderli con un trattamento differenziale a confronto degli altri sudditi Italiani». Tra le righe, sembra di leggere uno spostamento dell’identità: all’estero o nelle colonie, anche gli ebrei sono italiani. Nei confini nazionali ancora per poco.

La storia ha voluto che gli ebrei del Congo fossero relativamente risparmiati dalle tragedie che hanno colpito i loro correligiosi in Europa. Pur internati con gli altri italiani a partire dal 1940 nei campi di prigionia dall’esercito coloniale belga, verranno liberati prima di loro e durante la reclusione non mancheranno episodi di tensione, come racconta la storia di Jacques Franco, incarcerato in una nave-prigione ormeggiata nel fiume Congo sulla sponda di Kinshasa, che si rifiutò di brindare con un gruppo di italiani che lo invitava a festeggiare l’entrata dei carri armati tedeschi a Parigi. Reagì con tale veemenza che dovette intervenire una guardia belga per separarlo e metterlo in isolamento. E non mancheranno, anche qui, episodi paradossali: quando gli ebrei vennero liberati, infatti, tutti raggiunsero le loro case, tranne uno. Tale Azaria, considerato pazzo, che continuava ad urlare a squarciagola che si augurava la vittoria di Mussolini, l’unico grande uomo del ventesimo secolo. Nell’eco delle sue grida, i paradossi di una storia i cui tentacoli intrecciavano guerra, colonialismo ed emigrazione.