Leggendo un romanzo-verità qual è I buoni di Luca Rastello (libro che inaugura la collana «Narrazioni» di Chiarelettere, pp. 204, euro 14,00), è difficile sottrarsi alla tentazione di vedere nei suoi protagonisti dei personaggi reali. Ed è ancora più arduo, per chi con quel mondo che racconta ha avuto a che fare, arrivare all’ultima pagina senza trascinarsi dietro un senso di inquietudine, come se la storia che racconta riguardasse lui direttamente. I buoni è un libro che scuote dalle fondamenta la militanza sociale così come l’abbiamo conosciuta dal crollo del Muro a oggi, ne mette in discussione la stessa impalcatura. Mette in luce le zone d’ombra del privato sociale, il suo viaggiare su un doppio binario, quello palese «che si recita ogni giorno come un rosario» e che si nutre di un linguaggio estremamente corretto, progressista, buonista. E quello occulto, dove un fine supremo e astratto giustifica i mezzi concretamente adottati, e in cui i buoni, man mano che si scala la piramide del potere interna, esibiscono il loro lato peggiore.

C’è Azalea, una ragazza dal nome di un fiore sottratta a un destino segnato nei tombini di una città dell’est da Andrea, un operatore umanitario. E don Silvano, un «santo» impegnato a migliorare le sorti dell’umanità e a intessere rapporti di potere quanto incurante di quello che gli accade attorno. Attorno a loro, un sottobosco di personaggi che gravitano nel mondo del welfare privatizzato, arruolati in un’associazione il cui scopo principale è combattere le mafie, che organizza campi della legalità e coinvolge giovani desiderosi di militare per una buona causa. Man mano che il romanzo si srotola con agilità emerge la doppia morale dei «buoni»: politicamente attenti nel lessico adoperato e nei messaggi lanciati all’esterno (è da grande oratore e politico consumato il sermone di don Silvano in occasione di una strage operaia), ipocriti e poco attenti alle regole nei rapporti interni: i dipendenti non vengono licenziati ma «accompagnati», la retorica del «questo non è un posto di lavoro» per chiedere di lavorare di più senza compenso, le accuse di «sindacalismo» a chi si oppone. Sono le contraddizioni che attraversano il «sociale» organizzato: la mancanza di chiarezza e le regole à la carte, il sacrificio imposto in nome di un ideale superiore, un pauperismo di facciata che nasconde gestioni opache. E ancora, un maschilismo profondamente radicato e il cinismo di chi non si nega una battutaccia, al termine dell’orazione funebre di don Silvano: «Ma gli operai sono poi risorti?»

Rastello ha lamentato che questo suo lavoro, che denota una profonda conoscenza degli ambienti e delle figure che racconta, sia stato accolto con troppa attenzione alla «verità» e molta meno al romanzo. Il contrario di quello che accadde a Ermanno Rea ai tempi di Mistero napoletano: per svilirlo alcuni esponenti del Pci napoletano, di cui lo scrittore raccontava il lato oscuro e stalinista, lo declassarono così: «È solo un romanzo». È un equilibrio instabile, quello dei romanzi-verità, in cui il pendolo, a seconda delle convenienze, può virare da una parte o dall’altra.

Perché arrovellarsi, dunque, alla ricerca di visi familiari e fatti conosciuti quando questi non sono esplicitati (al contrario di quanto accadeva in Mistero napoletano)? Il libro di Rastello racconta il lato oscuro dei «buoni», guardando dal di dentro un mondo che fa dell’etica la sua bandiera e inchiodandolo alle proprie contraddizioni. Esso mette in discussione il modo in cui è organizzato il cosiddetto terzo settore in Italia, le sue ambiguità e le zone d’ombra, la deriva mercatista che non ha risparmiato proprio nessuno in quest’inizio millennio dai sentimenti tristi. In fondo, racconta una storia amara, sviscerata come un noir. È un romanzo che racconta la verità e i suoi personaggi sono tutti e nessuno. Non è poco.