La scorsa settimana lo IATSE (International alliance of theatrical stage employees), che sta negoziando un nuovo contratto con i produttori confederati, ha autorizzato lo sciopero di categoria.

Il sindacato rappresenta la manovalanza del cinema: 60’000 attrezzisti, elettricisti, assistenti, scenografi, costumisti montatori operatori – tutti i lavoratori delle troupe “below the line”, che nei titoli di coda di film e serie figurano sotto registi sceneggiatori e cast.
L’ultima grande agitazione a Hollywood risale allo sciopero degli sceneggiatori che nel 2007-8 risultò nell’accorciamento della stagione televisiva e lo svuotamento dei magazzini degli studios. Uno sciopero delle troupe non si verifica invece dagli anni caldi di scontro sociale degli albori dell’industria fra il 1920-40. Uno stop degli operatori dei set – sostenuti pubblicamente da molti attori e registi – potrebbe bloccare il cuore della produzione cinetelevisiva globale.

AL CENTRO DELLA VERTENZA vi sono le condizioni di lavoro sempre più estreme imposte dalle produzioni per far fronte alla domanda sovralimentata soprattutto dal proliferare delle piattaforme e dei servizi di abbonamento con la loro spropositata fame di contenuti.

Il cinema è stato sempre un settore altamente concorrenziale e ad alto tasso di precariato, che sfrutta una forza lavoro in gran parte freelance che necessita di un minimo di ore lavorative annuali per usufruire di protezioni sindacali ed assicurazione medica. Negli anni i sindacati hanno ottenuto alcune garanzie di sicurezza e limiti sui turni notoriamente disumani, ma è pratica corrente degli studios “sforare” e mettere le penali in conto nei budget.

Un neofordismo che in questa industria fortemente gerarchica ha esacerbato i rapporti di lavoro già di per sé assai impari che vigono dietro le quinte glamour dello spettacolo, una situazione giunta ormai al limite della sopportazione – soprattutto con la spinta per recuperare terreno post-lockdown.

Su canali social aperti dal sindacato c’è una marea montante di testimonianze e lamentele per le condizioni sempre più dure richieste dalle produzioni: turni fino a 18 ore consecutive, pause pranzo saltate, fine settimana obliterati con relative ripercussioni su famiglie, rapporti personali, salute e un incremento degli infortuni sul lavoro per esaurimento. Nel voto sindacale, hanno votato a favore dell’autorizzazione a scioperare il 90% degli iscritti.

Il negoziato avviene fra sindacato a e associazione di categoria delle major (Alliance of motion picture and television producers), ma la vera controparte sono soprattutto Netflix, Amazon e gli altri giganti tech sempre più padroni dell’industria che da Silcon Valley hanno importato un famigerato approccio produttivo imperniato su precariato, delocalizzazione e una spiccata antipatia per i sindacati.

DI FATTO i nuovi modelli imposti a Hollywood dalle piattaforme stanno sconvolgendo equilibri consolidati: i contratti devono essere riscritti con nuove clausole e le suddivisioni dei proventi rivedute per riflettere canali di distribuzione profondamente mutati.
Qualche giorno fa la Disney ha patteggiato una causa intentata da Scarlett Johansson che lamentava la perdita di milioni in diritti d’autore calcolati sulla percentuale di botteghino dopo che lo studio aveva deciso di distribuire solo in piattaforma Black Widow.
Ma mentre al vertice attori e autori godono di notevole potere contrattuale, le maestranze sono considerate intercambiabili. «Pensano che tanto gli basta portare tutta la baracca in Corea o qualche altro paese – che ci mettono un attimo a sostituirci…» mi diceva qualche giorno fa la montatrice di un serie di grande successo passata questa primavera su Hbo Max.

LO SCONQUASSO portato dalla pandemia a modelli consolidati di lavoro (e sfruttamento) con mutamenti quali il lavoro a distanza stanno accelerando la riflessione su un futuro indefinito.
La lotta dai lavoratori che producono l’immaginario globale è quindi una vertenza cruciale di era tecno-pandemica, la prima avvisaglia forse di uno scontro più ampio sul post-lavoro fra oligopolio digitale e le forze residue che cercano di contrastare l’allargamento del modello gig-economy ad ogni sfera della produzione e della vita.