Regista d’animazione e illustratore francese, Pierre-Luc Granjon è artista che si esprime con diverse tecniche e modalità espressive quali disegno, grafica, scultura, scenografia, decoupage. Dal suo primo corto Petite escapade del 2001 al più recente La grosse bête dell’anno scorso ha all’attivo una filmografia che scava con leggerezza, ma non superficialità, nei territori della sensibilità e dell’immaginario infantile. È la sua una fabulistica pedagogica non pedante che diverte i piccoli e fornisce un piacevole codice d’accesso in più agli adulti. A Granjon il Bergamo Film Meeting dedica quest’anno la personale completa, una mostra della sua arte (disegni, fondali, sculture, fotografie) e il catalogo monografico, di cui riportiamo un estratto.

Un aspetto che affascina e intriga nelle favole di Granjon è senz’altro il rapporto stretto fra la dimensione umana e quella animale. Non si tratta solo dell’antropomorfizzazione delle bestie che, a gradi diversificati percorre tutta la storia dell’immaginario collettivo da Esopo a Disney, bensì la simbiosi fra nature diverse. Animale e uomo diventano tutt’uno, vuoi perché quest’ultimo vive circondato da fiere mai feroci, vuoi perché i corpi e le menti dell’uno e dell’altro si alternano, scambiano, fondono. L’essere umano nella dimensione fiabesca di Granjon vive in ambienti –nei boschi, attorno al lago- in cui la natura selvaggia ha grande importanza. Altrettanto si dica per la sfera animale, soprattutto quando è a contatto con il fattore umano, che ragiona, sente, parla alla stregua delle persone con cui si rapporta.

L’osmosi fra le due essenze si manifesta ad esempio in L’Hiver de Léon già nella figura del narratore Boniface, novelliere medievale il cui cappuccio rivolto verso il pubblico lo fa apparire lupo. Il racconto così si tinge di note al contempo rassicuranti e inquietanti, stilizzate e ruspanti, pensate e sentite emotivamente. La verità e la finzione convivono alternandosi: il narratore assicura sulla veridicità di quanto va raccontando, ma voltandosi ostenta la maschera canina, il travestimento in/naturale che intimidisce l’ascolto razionale del suo uditorio giocando sugli istintivi timori irrazionali. Come bambini che si spaventano delle mani dei genitori che illustrano gestualmente coccodrilli e leoni che animano le storie orali, così i bifolchi in ascolto attorno al conteur d’histoires tacitano i propri dubbi alla vista del lupo alter-ego. Si passa dall’autunno all’inverno nel piccolo regno medievale del buon re smemorato Balthasar e della sua semplice figlia acqua e sapone, umanamente umile abbastanza da mescolarsi al suo popolo, seminascosta dal suo mantello con cappuccio verde. È in questa veste che la dolce principessa Mélie Pain d’Épice incontra casualmente Léon, ragazzo-orsetto venditore dei frutti della terra sua e dei suoi genitori adottivi, ed è subito amore a prima vista.

A minacciare la tranquillità del villaggio ci sono l’incombente inverno e l’orco famelico della montagna che, nonostante i soldati in armatura, rapisce la principessina. Nel frattempo la serenità di Léon viene turbata da moti interiori, stimolati dalle osservazioni di un rude riccio che gli evidenzia la sua diversità dalla coppia di apicoltori che l’hanno adottato. «Non sono i tuoi genitori loro. Sono umani mentre tu sei un orso», dice l’ispido animaletto senza peli sulla lingua, e questo basta a scatenare una crisi d’identità del giovane Léon che perciò si mette in viaggio. La sua strada s’incrocia con quella dell’affabulatore bifronte Boniface, trasportato dall’elefante fifone Hannibal, che lo convince ad accompagnarlo nella dimora dell’orco di cui è in realtà servitore. Con l’aiuto dei suoi nuovi amici animali, destreggiandosi fra la furbesca falsità di Boniface e la mostruosa brutalità dell’orco, Léon infine salva la principessa. Si arriva così al fatidico lieto fine di questo primo episodio stagionale di quattro, in cui è compresa la ricomposizione identitaria e familiare di Léon.

(…) L’anno precedente Granjon aveva diretto Le Loup blanc in cui con ancora più evidenza fa convivere e confrontare la sfera animale con quella umana. Decisamente meno tenero e consolatorio di L’Hiver de Léon, il cortometraggio del 2006 mette in scena una innocente ma inquietante alleanza fra lupi e bambini, in contrasto con il rude pragmatismo dei genitori. Anche in questo film campagna e bosco sono gli habitat del racconto, ma la casa in cui vivono Arthur, Léo e i loro genitori, seppur inserita in un villaggio, si percepisce come isolata, tanto è circondata da un silenzio inanimato. In effetti tutto, dal paesaggio ai lineamenti dei personaggi, è volto ad una scarna essenzialità con tratti irregolari che appaiono dissonanti con l’armonia acquisita l’anno seguente. I disegni a matita sono più abbozzati e crudi, seppur di alta efficacia emotiva e cromatica, e la colorazione è –specie nel bosco- fitta e graffiata. L’estetica brut è rimandata anche dai cavallini a manico di scopa, le cui teste appaiono fatte di tela di iuta con bottoni per occhi e fessure cucite come bocca, di effetto naïf orripilante. Stesso aspetto hanno i grandi lupi bianchi della foresta. L’affinità fra gli strumenti di gioco (i cavallini) dei piccoli Arthur e Léo e le creature della loro fantasia (i lupi bianchi) è evidente. L’apparente ossimoro fra sfera ludica e quella tenebrosa si manifesta anche con le loro infantili esclamazioni espresse nel bosco più tenebroso. Innocenza e potenziale incubo vanno a braccetto, ma i due stabiliscono un buon rapporto con entrambi. Così, armati di spade di legno, corrono dietro a un coniglio bianco (come Alice di Carroll) addentrandosi nella fitta vegetazione blu scuro finché non s’imbattono a sorpresa nel grande lupo bianco. Sembra più un fantasma, un pupazzo di pezza proveniente dall’al di là, degno del festoso ma spiazzante immaginario animato di Tim Burton.

L’attimo dell’incontro è sospeso, incerto fra gioco e tragedia, fra finzione e realtà. Non c’è stata soluzione di continuità nel passaggio dai dintorni di casa all’ingresso nella fitta vegetazione, così come c’è assoluta contiguità fra realtà e fantasia. (…) La foresta tenebrosa è dunque il luogo della fantasia e del gioco, l’abitato luminoso è posto deputato alla realtà e al lavoro. Il primo è la vera dimensione dell’infanzia, mentre il secondo è quella dei grandi. Il cortocircuito fra paura e serenità è solo nello sguardo degli (spettatori) adulti.

Nell’ultimo cortometraggio La grosse bête troviamo una sintesi di tematiche dei due film fin qui trattati. Lo scorcio di paese con cui si apre ricorda quello di Le loup blanc, il «reame» si riaggancia a L’Hiver de Léon. La grossa bestia del titolo racchiude in sé paure e finzioni legate sia al lupo che all’orco. «In tutto il regno si racconta che una grossa bestia viene a mangiarvi» narra una bassa voce maschile fuori campo accompagnata dalle note meditative e sospese di un pianoforte, «al momento in cui non te l’aspetti». La molla della paura e dell’insicurezza è tesa ed i volti inespressivi, ma segnati da lieve preoccupazione (o da preoccupata leggerezza?), della gente confermano. L’atmosfera dominante è di attesa angosciata, ma non del tutto perché il pragmatismo popolare rimuove la paura. Un signore fornisce una soluzione semplice, con soddisfazione generale: basta che tutti pensino continuamente alla bestia per non farsi più divorare. Si tratta quindi di vivere nella paura per prevenire che si attui il pericolo. E anche se il pericolo è tutto da dimostrare che esista veramente, in questa situazione di pacato grigiore si applica lo scambio iniquo fra strategia della paura e falso senso di sicurezza. Il problema casomai per questo metodo strampalato, eppure ahimé così reale, e che ci si abitua ai provvedimenti e alla fine non ci si pensa più. Ogni scena di possibilità quindi si conclude con un sipario che si chiude a bocca cucita (come quella del lupo bianco) a tutto schermo, per ricordare che l’alternativa è quella di essere mangiati dalla grossa bestia.