Impresse sulla parete della vicenda umana, certe date finiscono con l’assumere un rilievo tale per cui fuoriescono da quel tribunale oggettivo che chiamiamo Storia per assurgere a un livello più profondo e simbolico che ha piuttosto a che fare con la «memoria».
Sulla parte insanguinata di quella parete, fra le date indelebili si staglia quella del 1914. Per quasi tutto il mondo, il 28 luglio di quell’anno sta a significare lo scoppio della prima guerra mondiale. In quei giorni lontani, le giovani generazioni del tempo si accingevano a scongiurare, con l’entusiasmo tipico dell’ignavia, la noia e la pavidità proprie dell’esistenza borghese grazie a quell’evento autentico e rigenerante che era considerata la guerra. Tra le braccia un fucile e dentro gli zaini le opere di Nietzsche, centinaia di migliaia di ragazzi europei procedevano convinti di sperimentare la propria nemesi.
Quel tribunale implacabile che è la Storia si incaricò poi di smentire le ingenue illusioni di una guerra lampo e rigenerante, che invece durò quasi cinque anni e provocò milioni di morti. Mentre quel meccanismo indifferente alle passioni e alle tragedie umane, che è rappresentato dalle lancette dell’orologio, ha continuato implacabile il suo procedere e incedere meccanico fino ai giorni nostri. Fino a quel 2014 in cui molti paesi hanno celebrato il centenario di quella vicenda. Con una eccezione illustre: la Spagna. Qui, infatti, il 1914 non ha mai significato l’inizio di alcun conflitto mondiale, visto che esattamente un secolo prima il paese si era mantenuto indifferente e, quindi, neutrale rispetto alla sanguinosa vicenda bellica.

Sia perché proveniente dal recente trauma della fine del suo grande e secolare impero coloniale (con la sonora sconfitta subita nel 1898, ad opera degli Stati Uniti, durante il conflitto avvenuto nei Caraibi, che gli costò fra le altre cose la perdita di Cuba), sia perché culturalmente distante e periferica rispetto alle vicende europee, la Spagna non aveva preso posizione, rinchiudendosi in una specie di stanza eburnea in cui le finestre che davano sulla modernità rimanevano rigorosamente chiuse. Eppure, proprio mentre milioni di giovani europei ritenevano di aspirare alla propria nemesi attraverso la partecipazione al conflitto mondiale, una generazione di spagnoli, passata alla storia come «generación de 1914», poneva le basi per l’apertura di quelle finestre che impedivano alla Spagna di affacciarsi sulla modernità.

Grazie all’impegno culturale e politico profuso da questo straordinario gruppo di menti eccelse, il cui leader indiscusso fu lo scrittore e filosofo José Ortega Y Gassett (ma che vide il contributo di personalità illustri delle arti più varie, fra cui Pablo Picasso, G. Maranon, M. Azana, Blas Cabrera, Ramón Gómez de la Serna, Juan Ramón Jiménez, Conrado del Campo, Pérez de Ayala e molti altri), la Spagna poté aprirsi a quelle riforme che le avrebbero consentito di vincere la guerra in quel momento più ostica e impellente: lasciarsi alle spalle il XIX secolo e approdare sul terreno impervio ma esaltante della modernità. Il merito di questa generazione di intellettuali fu di aprire il paese al dialogo e all’integrazione con le più fervide correnti culturali dell’Europa, liberandola da un prolungato marginalismo periferico e ponendo le basi per il progetto liberale e democratico della «seconda repubblica» (1931-1939), che la generazione del ’27 (quella di García Lorca) avrebbe realizzato, fondandosi sull’insegnamento dei «pionieri» del 1914.

Si trattò della più importante esperienza di democrazia che la Spagna sarebbe riuscita a realizzare per buona parte del XX secolo. Il convinto impegno europeista degli intellettuali spagnoli non fu però pacifico. Sono rimaste celebri le dispute fra Miguel de Unamuno e Ortega Y Gassett, con il primo che puntava a «spagnolizzare l’Europa» (insistendo sul sentimento tragico della vita e sugli imprescindibili valori religiosi in opposizione alla visione laica e secolare dominante sul continente), e il secondo che mirava a una rigenerazione europea attraverso l’educazione e la scienza.
La specificità della «generazione del 1914» – come aveva sottolineato lo stesso Ortega nella conferenza su Vecchia e nuova politica (testo destinato a diventare il manifesto dei repubblicani spagnoli) – consisteva proprio nell’impegno degli intellettuali in politica. Ciò era evidenziato dalle prese di posizione dinanzi alla prima guerra mondiale, rispetto alla quale la generazione del 1914 si schierò a favore degli alleati, in contrasto con l’atteggiamento neutralista del governo e con le simpatie filo-tedesche espresse da molti intellettuali tradizionalisti. In mezzo, l’inquietante interrogativo espresso dal filosofo Eugenio D’Ors (il più influente divulgatore di Freud in lingua spagnola), che con il suo manifesto Per l’unità morale d’Europa (a cui aderì anche Benedetto Croce), si chiedeva in maniera retorica se in realtà non ci si trovasse di fronte a una «guerra civile» tra europei.

Il centenario di questa straordinaria generazione è stato celebrato a Madrid, con un Convegno internazionale – diretto dai docenti Javier Zanora Bonilla e Ignacio Bianco Alfonso – organizzato dalla Fondazione Ortega-Maranon in collaborazione con altre istituzioni spagnole e mondiali («Jornadas Internacionales sobre la Generación de 1914»). Soprattutto, la celebrazione del centenario ha prodotto la riedizione dell’opera simbolo di questa generazione, le «Meditaciones del Quijote» di Ortega Y Gassett (1914): se l’edizione spagnola consiste soltanto in una ristampa di quella originale, l’italiana si fonda sul testo rivisto e corretto ed è corredata da una sapiente introduzione di Armando Savignano (il curatore), relatore anche al convegno summenzionato e tra i massimi conoscitori della cultura spagnola (J. Ortega Y Gassett, Meditazioni del Chisciotte, Mimesis 2014, pp. 126, euro 12).
Un’opera in cui, secondo le parole dello stesso Ortega, perfino negli angoli più nascosti emergono i «battiti della preoccupazione patriottica» (un’«impresa d’onore che non ci lascia vivere»): creare la «nuova Spagna». Mentre i famosi «mulini a vento» divengono una metafora di quei «giganti» che a volte crediamo di vedere quando un’impresa ci sembra irraggiungibile. Così che solo la sana follia di un Chisciotte riesce a mostrarceli per quello che sono: nani sulle spalle di giganti. Mentre quei giganti siamo proprio noi