«Abbiamo registrato in tredici, suonando simultaneamente in due città diverse, sette musicisti a Faversham, in Inghilterra, dove vivo, sei a Brooklyn, utilizzando un nuovo software che serve a evitare i ritardi dovuti alla distanza: quasi un’ora di musica, e ascoltando sembra che fossimo nella stessa stanza, fantastico!». Evan Parker parla con grande entusiasmo di un nuovo lavoro, non ancora pubblicato, a cui hanno partecipato fra gli altri Matt Wright, Pat Thomas, Peter Evans, Sylvie Courvoisier, Ned Rothenberg, Ikue Mori, Craig Taborn, Matt Maneri, Sam Pluta: ottant’anni il prossimo 5 aprile, è estremamente interessato alle novità tecnologiche in campo musicale e non smette di guardare avanti. Virtuoso del sax soprano e del sax tenore, maestro dell’improvvisazione radicale europea di cui dalla metà degli anni sessanta è stato uno dei capiscuola, Parker ha portato in mezzo mondo il verbo della free music: ma nella fase del lockdown, meditando sulla qualità della vita, si è ripromesso di evitare le afflizioni dei voli aerei e degli aeroporti; così, di ritorno in Italia, dopo più di quattro anni di assenza, per due esibizioni a Milano e a Padova assieme con Walter Prati e Veniero Rizzardi all’elettronica, ha viaggiato in treno, bus e anche taxi: «Ero leggermente agitato per alcuni dettagli del viaggio, ma in effetti – ride – mi ha divertito un po’ tutto. Per esempio è stato magnifico attraversare Parigi in taxi dalla Gare du Nord alla Gare de Lyon, e guardare la città, che è così bella…».

La sua storia di relazione con l’elettronica ormai è molto lunga…

Sono entrato in rapporto con l’elettronica dal vivo con Hugh Davies e con Paul Lytton, e amo ancora adesso i suoni analogici che facevano. Quando arrivarono in Europa, Alvin Curran e Richard Teitelbaum usavano il Moog, molto ingombrante, poi c’è stato il VCS3, che è stato usato da tantissimi. Il primo grosso cambiamento è stato con i sintetizzatori digitali, al posto dei vecchi synth analogici. Walter Prati è stato il primo con cui ho lavorato che usava le nuove tecnologie digitali.

Via via le collaborazioni con musicisti che operano con l’elettronica hanno assunto un rilievo sempre maggiore nella sua attività: Walter Prati, Matt Wright, Sam Pluta fra gli altri.

Essenzialmente il sax è lo stesso strumento di quando Adolphe Sax lo inventò. Gli strumenti elettronici invece vengono rivoluzionati praticamente ad ogni cambio di stagione. Così la relazione con i musicisti come Prati, Wright, Pluta, ognuno dei quali ha un suo approccio, è molto diversa da quella standard con musicisti che utilizzano strumenti convenzionali: chi lavora con il live electronics in generale mi pare avere una visione più ampia delle possibilità. Non solo gli strumenti che impiegano sono di per sé molto flessibili, ma sono anche in evoluzione continua. Quindi trovo più corroborante suonare con musicisti che lavorano con l’elettronica.

Come ricorda il primo momento in cui ha fatto free improvisation, più o meno sessant’anni fa?

Ne ho un ricordo precisissimo. Nel ‘64 o 65, ero all’università e facevo parte di un gruppo con piano, basso e batteria con cui cercavo di suonare come Coltrane, come del resto ogni altro sassofonista in Europa e nel mondo. Avevo un amico che era al Royal College of Art, David, che fu un riferimento anche per Keith Richards, che lo cita nel suo Life: un suo compagno di studi stava facendo un film di fantascienza e aveva bisogno di una musica «futuristica», e mi chiese se potevo farla. Capivo cosa gli serviva, ed ero interessato. Il pianista e il batterista del mio gruppo invece non lo erano, ma il bassista disse: ok, vediamo che cosa succede. Facemmo qualche registrazione, e in effetti fu come suonare free. Non fu l’esito di una nostra ricerca musicale: semplicemente capitò. Ma fu per via di questa esperienza che incontrai John Stevens (batterista, pioniere dell’improvvisazione britannica, ndr). Consegnai la musica, e fu utilizzata. Alfreda Benge, poi compagna di Robert Wyatt, studiava cinema, vide il film, sapeva come era stata fatta la musica, e disse a John che era interessante, e ci presentò. In un programma alla radio avevo sentito una band di jazz avanzato con John alla batteria. John mi disse che stava facendo partire un club, musica sette sere alla settimana, mi chiese se volevo suonarci: certo, risposi. È stata la mia porta di ingresso, è così che ho conosciuto tutti gli altri.

Non manca chi vede la free improvisation come un modello, una allusione ad una diversa forma di organizzazione della società, in una prospettiva libertaria: si riconosce in questa idea?

(ride) Le idee anarchiche mi hanno interessato. Marxismo, marxismo-leninismo, trotzkismo, eccetera mi hanno attratto meno di Bakunin e dell’anarchismo in genere. Ho cercato di vivere in una maniera non dipendente da strutture autoritarie, non amo che mi si dica cosa devo fare, e non amo dire agli altri cosa devono fare, e mi piace organizzare le cose in maniera da evitarlo. Naturalmente non dire assolutamente niente e semplicemente suonare è un ideale, che si realizza con alcune persone: in altre circostanze è necessario formulare un piano, ma mi piace farlo sulla base di un consenso reciproco. Sì, penso che la musica non contraddica i miei convincimenti filosofici. Ovviamente facendo il musicista di professione bisogna a volte accettare dei piccoli compromessi, ma penso che questo sia comune a tutti, nella vita.

E ha ancora la speranza in una radicale trasformazione dell’organizzazione sociale?

(ride di nuovo) Credo soprattutto che se qualcosa non succede presto, se la gente non si rende conto di quello che sta accadendo, non ci sarà più una cosa come la musica, non ci sarà più niente… ci sarà un mondo distopico alla Aldous Huxley….

Una delle principali direzioni della sua attività è ancora oggi il solo.

È una dimensione in cui non devo preoccuparmi di nessuno se non di me stesso, e in cui mantengo un tipo di linea che è la stessa fin dall’inizio. Al principio, quando ho conosciuto John Stevens, Derek Bailey, Kenny Wheeler, Dave Holland, mi sentivo ancora uno «studente»: e perché mai dedicarmi al solo quando potevo avere il grande onore di suonare con persone come loro che consideravo superiori a me? Poi gradualmente ho cominciato a elaborare qualcosa in solo, e in effetti è stato l’esempio della free improvisation in solo di Derek a influenzarmi. Per me all’inizio c’era una piccola contraddizione: perché a improvvisare in solo sei tu a prendere tutte le decisioni, quindi in un certo senso non mi sembrava vera improvvisazione. Credo di non averne mai discusso con Derek, ma ad un certo punto mi resi conto che nei suoi solo l’altra persona era lo strumento… che c’era uno scambio, che lo strumento ti nutriva con delle idee… e questo è il modo con cui la musica in solo si sviluppa.

Dagli anni sessanta la musica improvvisata si è portata dietro i suoi appassionati: oggi urge un rinnovamento del pubblico…

Ma non sono i vecchi musicisti come me che devono cercare di fare cose che attraggano i giovani, sarebbe tragico: saranno i giovani che attrarranno altri giovani, e una nuova generazione dell’improvvisazione non manca certo. Qualche settimana fa, al Café Oto, a Londra, ho visto per la prima volta dal vivo Camille Emaille: è una percussionista formidabile, e mi è tornata in mente la prima volta che avevo ascoltato John Edwards (contrabbassista britannico, ndr), giovane, straordinario… Oppure penso a Toma Gouband, altro grande percussionista, che comincia ad essere conosciuto di più, e a tutti i musicisti geniali che lavorano con l’elettronica dal vivo. Questa è la vita della free improvisation che continua, con giovani che le portano qualcosa di nuovo: perché c’è ancora tanto da cercare e da inventare. L’importante è che i giovani musicisti non stiano ad aspettare sovvenzioni, aiuti dallo stato, che possono essere dati, ma anche tolti: ok, se riescono a trovare dei finanziamenti va bene, ma è cruciale che si organizzino da soli, che trovino luoghi dove suonare, creino situazioni che controllano, organizzino reti di contatti e di scambi, per suonare tanto e con prezzi di ingresso ragionevoli, in modo che i giovani come loro li vadano ad ascoltare. È quello che abbiamo fatto noi.

Tanta della sua musica continua ad apparire completamente, permanentemente contemporanea: musica di oggi e di domani e non di magari mezzo secolo fa…

Grazie, sono molto toccato da quello che dici: non potrei immaginare un complimento più grande per il mio lavoro.
non stampare, non stampare