Per opporsi alle arrembanti destre europee non si può che votare in difesa; per colpire la maggioranza che in Italia mostra precoci segni di difficoltà è possibile un voto all’attacco. Ricorriamo al linguaggio del calcio, parlando delle elezioni di oggi e domani, approfittando della coincidenza con un’altra sfida europea, quella del pallone che sta per iniziare (sul continente ci saranno molti più telespettatori per quell’evento che elettori effettivi in questa tornata).

Un voto in difesa perché i gruppi di sinistra (Gue, verdi, socialisti e democratici) e di centro (liberali e popolari) nel prossimo parlamento europeo sono destinati ad assottigliarsi, mentre quelli di destra (conservatori e identitari) cresceranno. Quel che è peggio, l’iniziativa sta oggi tutta in mano ai rappresentanti di una destra a tratti nebulosa e ancora divisa in diverse formazioni (ben presente anche nei popolari) ma che ragiona di possibili convergenze, nuovi gruppi e nuove geometrie.

Per i “moderati” che guardano apertamente da quella parte – e che hanno anticipato lo slittamento con un’inversione nelle scelte politiche di fondo (guerra, austerità, ambiente, migranti) – il problema ormai è trovare il modo per rendere presentabile una certa quota di impresentabili, non più batterli. Dall’altra parte, socialisti, liberali e popolari sperano di puntellare la vecchia alleanza, allargandola non troppo a destra e senza troppe concessioni (in termini di incarichi).

La redazione consiglia:
La guerra, il realismo e l’idealismo del voto

Gli spot elettorali di quella che è stata per tutta la legislatura la rappresentante dell’alleanza uscente, Ursula von der Leyen, ormai somigliano a quelli di certi fanatici trumpiani armati fino ai denti, tranne che ai mitra lei preferisce i bunker e missili che sembra morire dalla voglia di sparare personalmente. La guerra sul territorio europeo ha cambiato molto, ma non tutto come si poteva credere e persino sperare. La sostanziale condivisione della linea atlantista sull’Ucraina da parte di socialisti e verdi europei (i liberali sono persino oltre) fa sì che oggi sia difficile immaginare un voto spartiacque tra prospettive di guerra o di pace.

Se non nel senso che prova a dargli Orbán, che questo dice ma nell’ottica di un tifoso di Putin al quale interessa assai più mortificare e ridimensionare l’Unione che farla diventare protagonista di pace. Scartati immediatamente tutti i margini di mediazione tra Nato e Russia, rinunciando così persino alla tutela dei suoi immediati interessi commerciali ed energetici, l’Unione è attestata da un tempo infinito nel ruolo del passante in casa propria.

Non solo gli spot e i programmi elettorali, ma anche i più concreti e già decisi programmi di spesa di Bruxelles pianificano la continuazione della guerra in Ucraina solo in virtù di una gigantesca opera di riarmo. Curiosamente, questa assunzione di responsabilità europea militar-industriale fa il paio con la tesi che, invece, solo gli Ucraini possono decidere quando sarà il tempo di trattare. In linea con Washington.

La redazione consiglia:
Balletti, jingle e X Mas: la campagna social che imita la Tv anni Ottanta

Più che vincere le elezioni, cosa improbabile, per offrire una prospettica di reale cambiamento i socialisti e democratici europei dovrebbero dunque mutare pelle, cosa impossibile. Eppure concentrare lo sguardo solo sul voto di oggi e domani per fare previsioni sulla linea di condotta dell’Unione non è corretto. L’eterna irrisolta di Bruxelles infatti continua a essere guidata soprattutto dalle 27 capitali continentali e infatti è solo per questo che il barometro non punta già adesso e stabilmente verso una presidenza della Commissione di destra-centro. Dunque non è del tutto sbagliato guardare alle elezioni anche dalla prospettiva nazionale.

A casa nostra la scoperta di questi ultimi giorni di campagna elettorale è che la presidente del Consiglio – la donna centrale nella copertina dell’Economist tra quelle che «daranno forma all’Europa», le altre essendo Le Pen e von der Leyen – rischia di inciampare lungo il cammino trionfale che si era disegnato da sola quando ha deciso di correre come capolista unica. Da venti anni il partito che arriva primo alle elezioni europee in Italia supera il 30%, da dieci anni nel passaggio dal voto nazionale a quello europeo il principale partito di governo aumenta notevolmente i suoi consensi. Fratelli d’Italia può essere il primo a mancare entrambi questi obiettivi.

Una battuta d’arresto che potrà avere diverse spiegazioni, ma che principalmente misura la distanza tra le promesse elettorali e la realtà di venti mesi di governo. Sta tutto qui lo spazio per il contropiede e l’attacco delle opposizioni, in questo caso gratificate dalla legge elettorale che consente di accantonare il problema delle alleanze. E sarà bene contare con attenzione i voti lunedì, per valutare se la destra avrà mantenuto o perso la sua capacità attrattiva. E per dimensionare correttamente la maggioranza al potere, visto che si comporta come se avesse quel consenso maggioritario degli elettori che in realtà le è mancato anche il 25 settembre del 2022. L’interesse va oltre i confini nazionali, perché l’Italia resta un caso unico in Europa: paese fondatore guidato dalla leader di un partito con le radici piantate nel fascismo, l’unico dove al governo c’è una coalizione con le tre sfumature della destra continentale.

La redazione consiglia:
Allargamento e difesa, la Commissione che verrà

L’insieme di queste motivazioni, il peso dei problemi globali che l’Europa dovrà affrontare e anche il momento storico cruciale che queste elezioni incrociano lascerebbero attendere una grande partecipazione al voto. Ma sappiamo in partenza che non sarà così. Anche per responsabilità dei partiti che hanno fatto il possibile per scoraggiare l’affluenza. Senza tornare sui limiti della campagna elettorale, basta evidenziare come siano riusciti a peggiorare anche una legge elettorale assai migliore di quella delle politiche, proporzionale con soglia di sbarramento (soglia che a onor del vero in questo caso non ha alcuna motivazione).

Persino quando la possibilità di scegliere i candidati è in teoria finalmente riconosciuta – ci sono le preferenze e non le liste bloccate – la giostra delle candidature finte destinate a rinunciare e dei nomi civetta (“detta”) rende chiaro il tentativo di ingannare gli elettori. Fino all’ultimo.