Non chiamatelo sussidio universale. Perche la «Naspi» che oggi sarà ufficializzata dal Consiglio dei ministri in un disegno di legge delega sul mercato del lavoro e sugli ammortizzatori sociali coprirà poco più di 1 milione e 200 mila lavoratori. È una «riforma a costo zero», informano le consuete «anticipazioni» con le quali il nuovo governo ama disseminare il suo percorso, perché è un’estensione dell’indennità di disoccupazione Aspi introdotta dalla riforma Fornero e in scadenza nel 2016. Interesserà fino a due anni 900 mila lavoratori dipendenti a termine, somministrati o interinali che attualmente godono della cassa integrazione in deroga e poco più di 300 mila collaboratori a progetto, oggi esclusi dall’Aspi, che riceveranno un sussidio fino a sei mesi. «La» Naspi, il nome di un idrante che nella «Renzinomics» viene declinato al femminile, non è né un reddito minimo, né un salario minimo. Escluderà un terzo degli attuali disoccupati (oltre 3,3 milioni), non interesserà gli «inattivi» (oltre 2,2 milioni), molte forme di precariato intermittente, i lavoratori autonomi. La Naspi non è nemmeno un sussidio contro la povertà. L’ex ministro del lavoro Enrico Giovannini aveva provato a istituirlo con l’ex vice-ministro all’Economia Stefano Fassina, con risultati quantomeno discutibili. Dal turbine della legge di stabilità erano usciti solo 40 milioni di euro per i prossimi tre anni. Una commissione ministeriale convocata ad hoc da Giovannini aveva stabilito il costo di tale sussidio in 7 miliardi di euro all’anno. Il Sostegno per l’inclusione attiva (Sia) è stato poco più di una «social card» rivisitata. Stesso discorso vale per il «Reis», il reddito di inclusione sociale attiva formulato dalle Acli e dalla Caritas, che Renzi vorrebbe realizzare entro la fine della legislatura. Un’altra «indiscrezione» che conferma l’ottica assistenzialistica in cui si muove anche questo governo, ben lontano dal discorso sui diritti fondamentali a cui sono ispirate le idee di reddito di base o di cittadinanza.

La platea degli interessati alla Naspi dovrebbe essere composta da chi ha perso un lavoro dipendente e ha ricevuto una busta paga per almeno tre mesi. Il sussidio durerà la metà dei mesi lavorati negli ultimi quattro anni per un massimo di due. Quindi se qualcuno ha lavorato solo tre mesi, avrà un mese e mezzo di sussidio, incassando 930 euro. Se invece avrà lavorato più di un anno dovrebbe percepire fino a 1200 euro all’inizio per poi scendere a 700. Sta qui l’aspetto «universalistico» di una misura che si presenta in realtà condizionata dal numero dei beneficiari e dalle modalità di finanziamento. In attesa di un chiarimento sulle cifre, che forse arriverà oggi nella conferenza stampa ribattezzata enfaticamente «mercoledì da leoni», si dice che la Naspi costerebbe 1,6 miliardi di euro in più dei sussidi esistenti, a cui bisogna aggiungere i 3,6 miliardi di euro per la Cig (del 2013), per un totale di 8,8 miliardi di euro. Ad oggi, alla Cig in deroga mancano all’appello 1,1 miliardi (su 3,6), soldi che dovrebbero essere trovati e poi confluire nella Naspi. A questa incertezza si aggiunge un’incognita: per ottenere la Naspi il lavoratore dovrebbe rinunciare al giudice in caso di licenziamento ingiusto (a parte il mobbing). In cambio riceverebbe un compenso. Approvando questa misura Renzi terminerebbe un percorso di monetizzazione dei diritti iniziato sin dal tempo di Sacconi. La stessa idea sta alla base del contratto di inserimento senza le tutele previste dall’articolo 18 per i primi tre anni di lavoro. Questo contratto non è quello «unico a tempo indeterminato e a tutele crescenti» di cui parlano i renziani. Quest’ultimo ci dovrebbe essere, ma non nell’immediato. Quasi certa è inoltre l’ipotesi di allungare il contratto acausale» dagli attuali 12 a 36 mesi. Si tratta di una misura di ultra-precarizzazione, sanzionata in Europa, contro la quale si è già scagliato il giuslavorista Piergiovanni Alleva. Ultimo capitolo di questa riforma che non avrà tempi brevi è la nuova Agenzia Federale per il Lavoro, risultato dell’accorpamento di Isfol e Italia Lavoro, che dovrebbe funzionare da coordinamento delle Agenzie Regionali per il lavoro. Enti che non esistono in tutte le regioni. Per realizzare questa misura, funzionale all’istituzione del «workfare» di cui parla il governo, bisognerà riformare il titolo V della Costituzione e riattribuire le competenze delle province ad oggi perse in un limbo. Queste «indiscrezioni» La «movida» di Renzi (definizione fulminante di Pier Luigi Bersani ieri) dovrà durare molto a lungo per raggiungere tutti questi obiettivi.