Enzo Moscato non si è mai allontanato da Napoli. Autore e regista teatrale, interprete al cinema per Pappi Corsicato, Stefano Incerti e Antonietta De Lillo, chansonnier ironico e raffinato, i suoi lavori attraversano e raccontano la città: «Sospiri, voci, filastrocche sono i mezzi che uso nel mio teatro, straduncole che creo da me o prendo dalla tradizione. Perché a Montecalvario sono nato e ho vissuto». Così raccontava alla vigilia del suo ultimo lavoro Napoli ’43, dedicato alle Quattro giornate di Napoli, cioè la ribellione contro i nazifascisti, unica città in Italia a essersi liberata da sola, «anche se le armate americane tolsero i fucili dalle mani degli insorti e diedero loro la cioccolata. Un depotenziamento della rivolta che ha portato nel tempo a una trasformazione antropologica». L’Ex asilo Filangieri gli dedica due giorni, oggi e domani, nell’ambito della residenza teatrale Occhi Gettati, a cura di Francesco Saponaro. Dal 25 al 30 marzo sarà in scena alla Sala Assoli con Patria puttana.

Moscato, spesso viene intervistato dalla stampa nazionale in occasione dell’emergenza cittadina del momento. Un’attenzione a volte ossessiva che però non sembra generare un dibattito reale: «Quando si parla di Napoli con non napoletani si fa molta fatica, perché di solito non riescono a capirne la complessità. Sono stufo di semplificazioni e banali pregiudizi. Siamo comunicatori e dobbiamo usare la semplicità, ma la semplicità deriva da un accumulo di complessità. La mia vicenda teatrale è un mai concluso discorso su Napoli, non sono mai andato via ma nessuno va via veramente, anche se si trasferisce altrove. Giro intorno all’oggetto/soggetto Napoli da quarant’anni. Benché l’Italia sia al disastro e la città lo rappresenti al suo livello massimo, credo nella capacità di resistenza della città inorganica: le sue pietre, i suo monumenti, il suo invisibile mare. Per un lungo tempo l’unica canzone che si cantava era quella dei ‘camorrismi’: una litania di morti ammazzati per strada ripetuta fino a soffocare qualsiasi discorso. Si è cancellata la storia e si è fatta sociologia da quattro soldi. Ad esempio in tv, che è il luogo della massima semplificazione, la lingua napoletana diventa quasi irriconoscibile, ridotta a una parodia. Invece noi viviamo in un luogo che si potrebbe definire complessicity».

Eppure la stessa Napoli sembra aver voltato le spalle al proprio passato di capitale culturale

Bisogna distinguere la tradizione dalla conservazione. La tradizione ha in sé il concetto del tradimento. Peppino, Eduardo, Tina Pica, Maggio, Viviani sono icone che agiscono in modo sotterraneo nel contemporaneo. È la cultura ufficiale che li ignora perché preferisce la semplificazione. Mi piacciono le esperienze di autorganizzazione come l’ex Asilo Filangieri, dove dei ragazzi hanno occupato e poi si sono fatti affidare uno spazio nel centro storico dove sperimentare, in virtù di una urgenza che sentivano sulla loro pelle, come accadeva negli anni ’60 e ’70. C’è bisogno di utilizzare strumenti svincolati dal potere per esercitare la creatività, la libertà, un pensiero originale. Oggi la cultura è solo merce, brutta merce.

Com’è cambiata la scena teatrale partenopea?

Bisogna spostare l’immaginario più avanti, dare voce a ciò che resta invisibile. Come accadde a me e Annibale Ruccello negli anni ’80. Nel 1985 vincemmo i principali premi italiani nella sorpresa generale perché dopo Eduardo nessuno si aspettava l’exploit di questi due giovani. Ruccello aveva già un piccolo passato a teatro. Io ero praticamente sconosciuto fuori Napoli. Eppure nel 1985 Annibale vinse il premio Idi con Ferdinando e io il premio Riccione Ater con Pièce noire, secondo Pier Vittorio Tondelli, su 400 partecipanti. Oggi sarebbe impensabile, bisogna passare per il gradimento del potente e del politico. Ai nostri esordi, molti dei grandi del novecento erano vivi e ci guardavano con uno sguardo severissimo, i critici poi erano ruvidi. Questo ci ha fatto crescere. I ragazzi dei miei laboratori, invece, fanno fatica a digerire il fatto che il teatro è sacrificio e rinuncia, vogliono il successo immediato, la scorciatoia. Eduardo i suoi attori li faceva sudare: a interpreti come Antonio Casagrande, Angela Pagano, Isa Daniele non faceva mai fare un assolo. Non era crudeltà ma parte di un percorso educativo.

Il tessuto urbano nelle sue complesse stratificazioni è un elemento importante dei suoi lavori

Sia io che Rucello venivamo da ambienti non consueti, lui dall’antropologia e io dalla filosofia. Così il nostro sguardo era quello del ricercatore che ha in sé il talento istrionico per indagare la metamorfosi negativa del contesto urbano. Questo ha dato vita al fenomeno della Nuova drammaturgia, la pratica dell’immaginario con cui penetrare e raccontare la Napoli del dopo terremoto: le nuove periferie con differenti dinamiche di emarginazione, la città che si va facendo brutta. In Compleanno c’è il personaggio di Pagnottella, killer di giovani travestiti. Un tema presente anche ne Le cinque rose di Jennifer di Ruccello, eppure all’epoca non era un argomento consueto in cronaca nera. Ma quei contesti hanno sollecitato in noi un salto di comprensione verso scenari futuri.

Napoli sembra aver perso la capacità di innovare. Le istituzioni poi concentrano la maggior parte delle risorse in poche mani…

Oggi è difficile uscire da Napoli, le sale teatrali ospitano «non teatro». Come ci insegnano Viviani, Beckett, Artaud, il teatro non ha a che fare con la realtà ma è piuttosto il suo doppio. Invece le porte si aprono attraverso le conoscenze, i tavoli a cui ti siedi, le clientele. Così l’offerta è povera e nel tempo non si è neppure formato un pubblico in grado di comprendere ed esigere innovazione. Non esiste alcuna politica culturale così si è distrutta la possibilità di investire sul collettivo. L’unica strada aperta è la possibilità di formare nuovi singoli che domani possano formare un collettivo.