Con un titolo che è già esplicito, il Teatro Pubblico Pugliese ha stretto un accordo di collaborazione con quello che in pochi anni è diventato una delle ribalte fondamentali, e più utili, della scena mondiale: il festival cileno «Santiago a mil». Uno dei primi frutti visibili di questo accordo chiamato Pugliamerica del sud (firmato a Brindisi, per parte cilena, dalla presidente di quel festival, in quanto colei che era la direttrice artistica è stata chiamata poche settimane fa a ricoprire il ministero della cultura dalla presidente Michelle Bachelet) è stata proprio la anteprima europea di Emilia, la nuova creazione di Claudio Tolcachir. Nel frattempo lo stesso spettacolo è ancora stasera al Palamostre di Udine e si accinge a un mese di repliche in Francia, prima sede il teatro della Villette.

Tolcachir è il più giovane degli autori di quell’onda teatrale argentina che ha conquistato ormai una sua centralità nel mondo. Dopo Bartìs, Veronese, Spregelburd consacrato qui da noi da due regie di suoi testi firmate Luca Ronconi, arriva questo giovanotto dai capelli rossi e dai modi gentili (38 anni, considera gli altri «i suoi maestri», ma con grinta e coraggio del tutto autonomi), riferimento di un gruppo di attori entusiasti quanto affermati a Buenos Ayres, la cui compagnia Timbre quatro prende nome dalla targhetta sul citofono dello spazio dove sono soliti incontrarsi, elaborare, e provare i nuovi lavori. I quali sono costituiti proprio dagli elementi esistenziali dei suoi membri, i loro ricordi e le loro aspirazioni, le loro esperienze e le loro ristrettezze. Anche se al quarto titolo creato per il palcoscenico, l’autore racconta di averlo stavolta scritto da solo, in un tempo ravvicinato in cui si materializzavano visioni della memoria e del futuro.

Diversamente, in quelli precedenti come Il vento e il violino, o La famiglia Coleman, visti anche da noi era rintracciabile l’influsso e l’apporto dei suoi attori, del loro portato esistenziale e della loro scanzonata e dolorante visione della vita. Lì infatti si rideva volentieri, dinanzi a famiglie scombinate, amori fuori dai generi, mamme ossessive e l’ossessione per tutti della psicanalisi e dei suoi predicatori. Per Emilia invece, non manca il sorriso, ripetutamente lungo i cento minuti della sua durata, ma sono le emozioni, l’amarezza, e perfino una lacrimuccia (per chi vuole) a lasciare il segno più profondo.

Il testo nasce, racconta l’autore, da una sua esperienza reale: l’aver incontrato di recente, dopo moltissimi anni, colei che era stata la baby sitter di tante ore della propria infanzia, la sua niñera di nome Emilia appunto. E di aver scoperto con sorpresa che la donna ricordava e sapeva tante cose più di lui di quella età e di quelle sue esperienze alla scoperta del mondo. Da lì è partita la sua scrittura teatrale sull’incontro e la conoscenza degli esseri umani, sui mondi che questi frappongono o celano rispetto ai loro simili, sui sentimenti, spesso profondi fino all’abisso, che motivano e spingono i loro gesti, tanto di bontà quanto sanguinari, verso coloro che stanno loro intorno.

Anche stavolta è una famiglia il perimetro apparente della storia, una coppia con figlio che ha appena traslocato in una casa più grande e più bella, benché non siano state risolte le ristrettezze della vita che conduce. E come in tutto il teatro porteño che continua a scavare nelle proprie radici per affrancarsi dalle grandi crisi finanziarie del paese e soprattutto del fantasma nero degli orrori perpetrati dalla dittatura militare (quasi che desaparecida sia anche la propria storia, insieme alle vite di tanti innocenti). Il marito incontra per caso la sua antica baby sitter, la porta a casa, la invitano tutti a rimanere con loro. La moglie è gentile ma catatonica, il figlioletto al contrario è ipersensibile ed esageratamente reattivo, quando non si applica alle note del suo nuovo xilofono. Perché è una normalità solo apparente, come è naturale. Tanto che a un tratto si rifà vivo un uomo, primo marito di lei e padre reale di quel ragazzo. Dovrebbe andarsene presto, ma il seme della gelosia è una miccia che esplode in un momento, o in uno sguardo. La donna confessa di volersene andar con lui, il ragazzo vede ancor più divisa la propria personalità. Il buon padre, panciuto e comprensivo (un attore molto famoso in Argentina, per essere l’interprete di molti film di successo) scopre l’altra faccia del suo carattere, così innamorato da potersi trasformare in un carnefice. Lasciando alle parole «serene« della gran madre Emilia il compito di chiudere il racconto e l’espiazione di quella geometria impossibile, riottosa ad ogni modalità di convenzionale e «moderna» ricomposizione.

Uno spettacolo bellissimo, molto duro ma certo altrettanto emozionante, attraverso il quale il teatro riesce a recuperare la sua funzione sociale e civile di rito collettivo, che può condurre alla comprensione. Senza trionfalismi o miracoli, ma con l’amore concreto per tutte le cose che sono sostanza e sapore della vita.