Al Macro di Via Nizza il titolo della serata, una delle tante del 53° Festival di Nuova Consonanza (eventi ogni due-tre giorni fino al 20 dicembre), è Philip Glass and the New Americans. Performer il pianista Emanuele Arciuli, che ha scelto gli autori, le opere e l’ordine del programma nonché la sua filosofia musicologica e informativa. Si tratta, spiega lo stesso Arciuli, di compiere una ricognizione intorno alla generazione dei compositori americani circa quarantenni intercalando alcuni Ètudes di Philip Glass, vale a dire di uno dei possibili progenitori degli autori più giovani. Seguiamo il concerto passo passo.

La musica dei Three Ètudes di Nico Muhly non è tanto da salotto quanto da stazione termale. Pastoso, mollaccione, in pantofole, intrattenitore quasi-pop che traduce il titolo Quiet Music di uno dei pezzi proprio nel concetto di «quieto vivere», conformista, senza idee. Il Glass dell’Ètude n.9 (l’intero ciclo, in due volumi e venti Studi risale al 1994) è quello più annacquato, anche lui tendente al pop, neanche tanto ripetitivo, piacevole per modo di dire perché gli manca la concentrazione e quindi l’invenzione melodica.

Secondo Arciuli, che presenta ogni brano, i 4 Intermezzi di Peter Gilbert, in prima assoluta, sono molto europei, ricordano Brahms o Scriabin, ma hanno anche qualche tinta jazz. Sono musica romantica-moderna europea un po’ alla maniera di Keith Jarrett in quelle parti dei suoi concerti in solo in cui esplora il primo ‘900 e lo romanticheggia ecletticamente. Gilbert scrive bene e sta al riparo da ogni tentazione di sguardi sul mondo di oggi. Tocca a Glass. Nell’Ètude n. 8 è ancora meno ripetitivo, lui che sarebbe un campione mirabile di questa maniera di intendere la musica. Pop placidoso a tutto spiano. Però c’è da dire che Arciuli è un po’ così nel suo stile di interprete.

Con i Five Funk Studies di Derek Bermel finalmente ci si sveglia. Espone un’idea di swing aritmico, leggerissimamente «nevrotico», è inquieto (finalmente!) anche nella Lullaby dove dimostra di aver capito il jazz. Inventa un bel «fugato» dodecafonico di nuovo in salsa jazz. Carino e anche di più. Ma il meglio arriva con Chris Cerrone e il suo Hoyt-Schermerhorn per pianoforte ed elettronica. Musica «lunare» evocativa, un approccio con armonie dissonanti molto lievi, atmosfera assorta, bel suono lucido (basta pantofole!). E quando arriva l’elettronica è come un girare di cristalli nell’aria.

Ecco Glass che ritorna. Nell’Ètude n. 3 è sempre un po’ zuzzerellone ma stavolta più intenso, più slanciato, più lui verrebbe da dire, con quegli arpeggi ripetuti che anche nel suo periodo soft sono il marchio di fabbrica. Missy Mazzoli e Isabelle Eberhardt Dreams of Pianos, con elettronica. C’è uno sfondo vagamente ambient e poi il brano svolge una sorta di trasfigurazione pop – Arciuli sostiene che si sentono i Radiohead – del secondo movimento della Sonata D959 di Schubert. Ambizioso, dispersivo e antiquato.
Il Glass dell’Ètude n. 2 è ottimo. Era ora. Romantico assai ma anche dolcemente minimal ricorda un po’ il celebre struggente Metamorphosis Two. Chiude la serata Judd Greenstein con First Ballade. Virtuosistico, fragoroso, iper-decorativo. Anche qui il contemporaneo non c’è. Strani questi mew americans.