Ci sono libri il cui significato non si misura soltanto sulla qualità del testo che contengono. Libri la cui veste grafica (anche un semplice formato tascabile è un medium complesso e stratificato) e storia editoriale fanno la differenza. È il caso di quel piccolo gioiello che Goethe pubblicò nel 1789 per i tipi del prestigioso editore berlinese Johann Friedrich Unger con il titolo Il carnevale romano e che adesso ci viene restituito nella sua classica bellezza dalla Salerno Editrice («Faville», pp. 116, euro 14,00) grazie alla cura sapiente di Luigi Reitani e nella bella traduzione di Isabella Bellingacci.

Rivive così, trasformato ma incorrotto nel tempo, un aureo libretto che Goethe aveva sin dall’inizio concepito secondo una coerente strategia multimediale. Testo, copertina, caratteri tipografici, incisioni e illustrazioni a colori: tutto collabora alla presentazione consapevole di un’opera che segnava comunque una svolta nell’attività del grande autore di Weimar. È, infatti, uno dei primi e rari testi che Goethe pubblicò a caldo, subito dopo il suo rientro dal tour lungo la penisola. L’opera maggiore, Il viaggio in Italia a tutti noto, è invece il frutto di un’inesausta riscrittura, protratta per decenni e che l’autore concepì al servizio di un classicismo che nel frattempo rischiava di diventare di maniera e comunque era destinato a opporsi, nell’agone letterario, alle produzioni romantiche che ormai dettavano la linea soprattutto nel mercato delle narrazioni di viaggio. Completamente diverso il «reportage» sul carnevale romano, che quasi si specchia in un’altra esperienza perturbante per il Goethe classicista, quella della visita della grotta di Santa Rosalia a Palermo. In via del Corso come sul Monte Pellegrino, sia pure per un attimo, s’infrange la statuaria necessità del classicismo goethiano e dalle crepe di un’esperienza che stravolge la vita affiorano le trasgressioni del «saturnale moderno» come la mistica sensualità della santa seminuda rilucente di ori e gemme.

La descrizione del carnevale romano assume perciò un significato che va ben al di là del quadretto di genere – con cui spesso è stato confuso – e con l’esercitazione documentaria. È semmai la cicatrice di una ferita che lacera il cuore del Goethe neoclassico. Opportunamente Reitani sottolinea la potenza visiva del testo e il suo carattere programmatico, innanzitutto nella poetica goethiana. Si tratta infatti di un’ékphrasis, di una sistematica descrizione di immagini, che però sembra abbandonare le sicurezze del genere classico per avventurarsi su un terreno sfuggente, che mette in crisi la cultura visuale tutto sommato neoclassica del giovane Goethe.

Non bastano le parole, infatti, né le tavole incise e colorate a mano dal fido Georg Melchior Kraus su disegni di Johann Georg Schütz, a rendere il rutilante caleidoscopio di una Roma invasa dal carnevale, sia pure in un’unica strada, la via del Corso su cui si affaccia peraltro l’abitazione di Goethe. Se ci si attenesse ai modelli francesi, per esempio il Tableau de Paris di Louis-Sébastien Mercier, si correrebbe il rischio di dare un’immagine confusa e inafferrabile per i lettori tedeschi: Goethe ne è consapevole. Cerca pertanto uno stile alternativo e nuovo. Giustamente il curatore insiste sul sapiente montage, quasi filmico, che tiene insieme i brevi schizzi verbali di cui è composto Il Carnevale romano e le immagini colorate, nonché tutto il repertorio stilistico che oggi sappiamo appartenere alla descrizione moderna.

La forma di questo gioiello è, dunque, essenziale, ma altrettanto lo è il suo significato antropologico e politico: l’opera è infatti una riflessione su una forma di festa collettiva che molto ci dice sia sulla crisi dell’ancien régime che il carnevale mette in scena nella sua insostenibilità politica, ad esempio abolendo sia pure per poche ore la divisione tra le classi e operando sottili inversioni delle semantiche sociali, sia sulla struttura profonda dei rituali sociali. Dalla politica si passa così all’antropologia poiché il carnevale è per Goethe, come più tardi per Bachtin e per tutti i teorici novecenteschi della festa (Bataille e tutto il Collège de Sociologie per primi), la trasgressione che permette la rinascita, l’incarnazione di un desiderio collettivo di morte necessario alla rigenerazione: che Reitani vede opportunamente sottolineato nell’ossessione per la corsa dei cavalli in via del Corso.

Per Goethe la corsa dei cavalli, fulminea e violenta, diventa la metafora di un’estasi piena di bellezza – come leggeremo nella celebre definizione dell’attimo nel Faust – ma anche lo spazio di un’ebbrezza che ci fa gustare la libertà e l’uguaglianza. La descrizione di Goethe è un misto di esaltazione e paura, perchè i cavalli imprimono un dinamismo alla festa che può culminare nella morte degli animali o degli spettatori. Basta una distrazione e la corsa selvaggia si trasforma in lutto e disperazione, che nella massa passano inosservati. Non è un caso che nessuna immagine possa restituire questa estasi, e a mala pena ci riescono le parole concitate di Goethe.

Certo Goethe sa che è difficile guardare troppo a lungo nel gorgo della trasgressione e non è un caso che senta quasi il bisogno fisico di alternare dionisiaco e apollineo nella serie di quadri che colleziona nel suo carnevale romano: così alla «libertà carnascialesca» che individua con sapienza bachtiniana si alternano i «gendarmi» schierati a contenere la folla; alle «maschere» si oppongono le «carrozze» che mimano una danza ordinata; alla «folla» – una nozione che a quell’altezza temporale è tutt’altro che scontata – fatta di ressa, baraonda, rumore e baldoria, si oppone il corteo del Governatore e del Senatore; alle risse causate dai lanci dei «confetti» si oppone la stupita melanconia dei pulcinella. Solo la carne esausta e la notte sanno porre un limite a questa deriva dionisiaca. La massa si disperde per stanchezza o perché ha raggiunto i limiti che pure il corpo deve imporsi per sopravvivere. Ma non è la cultura, né la luce del giorno a ristabilire l’ordine, semmai l’esaurimento delle forze, «poiché anche la vita, come il Carnevale romano non è visibile né sopportabile nel suo insieme». Ed è questo il punto. La «rinucia» di Goethe non è mai solo una ritirata piccolo-borghese nelle istituzioni, ma la consapevolezza che l’eccesso di vitalità esaurisce la vita e può ucciderla.

Per questo il libretto sul carnevale romano assume nella produzione di Goethe un significato particolare: è uno dei rari momenti in cui l’autore riesce a cogliere nel perturbante della massa, della trasgressione e della violenza, sia pure simulate, le ragioni di una gioia e di una pienezza che considererà sempre troppo pericolose ed esiziali, soprattutto se non riesce ad autolimitarsi. Quando il riso sfiora il tragico, certo, il poeta non arretra. Ma l’uomo Goethe sa che guardare troppo a lungo può significare morire.