Il Victoria and Albert Museum dedica quest’anno alla moda italiana la sua mostra di primavera, The Glamour of Italian Fashion Since 1945 (fino al 27 luglio). La sera dell’inaugurazione, con i discorsi, lo champagne, e i vestiti casual chic della colonia anglo-italiana, si respira l’atmosfera delle grandi occasioni. Magica è l’illuminazione del foyer: sommessa e invitante come quella di un bazar orientale. Signori, questo sì che è «glamour»! Come ci ha insegnato Elizabeth Wilson, decana degli Studi di moda britannici, questa parola che pare fatta apposta per lo star system hollywoodiano, appartiene in realtà all’antica cultura celtica intrisa di magia. È imparentata con «gramarye», rovescio occulto e malvagio di «grammar». Se «grammatica» è l’invisibile ordine della mente, «gramarye» è il paralizzante velo di splendore gettato sulle cose. Sicché, adottando come logo la testa di Medusa, Versace puntò dritto alla radice mitica del glamour, subito però traducendola in un demotico parlato ben oltre i confini della haute couture. Pensiamo soltanto al suo innovativo uso della pubblicità.

Ma buttiamoci subito nella mischia. Chiusi entro scintillanti teche di vetro, ecco i celebri modelli, le geniali intuizioni di un design che subito, e non senza generale stupore, mise l’Italia del dopoguerra a tu per tu con Parigi. Simonetta, Fabiani, Galitzine, Fontana, Gattinoni, Pucci, Marucelli, Ferragamo. Il vetro rende ancora più preziose queste «creazioni», avvolgendo di un’aura sacrale quanto fu già, semplicemente, «moda»: roba da indossare. Alle pareti, un mobile e grandioso collage sonoro taglia attraverso il cinema degli anni cinquanta: Audrey Hepburn-Natascia di Guerra e Pace, nel suo verginale abito Gattinoni, la lambretta di Gregory Peck e ancora Hepburn – in semplice camicetta bianca e fazzolettino al collo, come usava allora – in Vacanze romane, Ava Gardner, la principessa Galitzine e la duchessa Colonna di Cesarò, alias Simonetta, aristocratiche interpreti delle loro stesse creazioni, Anita Ekberg alla Fontana di Trevi, e poi Marcello Mastroianni: lo sguardo che si intuisce perplesso nascosto dietro gli occhialoni scuri. Mancava giusto Accattone, con la sua divisa nera da dandy subproletario, che all’epoca non faceva ancora glamour ma l’avrebbe fatto una ventina d’anni dopo.

Tutta la forza e la sapienza espositiva del grande Museo si manifestavano in questa prima sezione, insieme alla capacità della curatrice, Sonnet Stanfill, di movimentare uno spazio che, lasciato a se stesso, avrebbe schiacciato gli abiti, mortificandoli, e invece da lei trattato diventava un emozionante labirinto dai mille percorsi, sempre diversi e capaci di offrirsi in nuove prospettive. Era palese l’orgoglio di esibire documenti sartoriali per la maggior parte di proprietà del Museo, accantonati in lunghi decenni di acquisizioni oculate e presaghe. Del resto è ben nota la britannica mania di storicizzare il presente man mano che passa.

Nelle prime sale erano gli abiti da gran sera e i completi da viaggio a stabilire l’atmosfera: accessori segnaletici delle occasioni con cui l’alta società maggiormente si riconobbe nel dopoguerra, ossia la festa e il viaggio. Quest’ultimo possibilmente intercontinentale, possibilmente americano, poiché l’Italia ferita e deprivata di allora guardava agli Stati Uniti d’America come a una mitica terra in cui scorressero latte e miele. E un po’ di vero c’era, in questa visione, perché il cotone e i pellami del piano Marshall furono materie prime fondamentali per la ripresa delle industrie tessili e calzaturiere, sicché la moda svolse in quegli anni una funzione di avvicinamento tra Italia e Stati Uniti. Ma soprattutto, a consolidare la suggestione di un mondo concluso, inevitabile, c’era il cinema: familiari figure di divi, esemplari sfondi cittadini, canzoni ultra-evocative. Mentre in realtà le cose non stavano affatto così: si sa che Cinecittà era la mecca dei produttori americani solo perché immensamente più economica degli studios californiani. Che la Roma Hollywood sul Tevere era solo il terminale di partenza di una volata lunga sessant’anni il cui punto d’arrivo è La grande bellezza di Sorrentino. Tradiva dunque una certa ingenuità l’ostinarsi a riconoscere nel momento cinematografico l’età dell’oro del design italiano di moda. Vestita da Fontana, da Marucelli, da Gattinoni, l’icona divistica si poneva come l’indice di un mondo risolto, ma a guardar bene proprio nei migliori di quei film essa copriva un disagio. Vi è disturbo nell’immagine surreale della Diva alla Fontana barocca: il voluttuoso abito nero è di Fontana (mi si passi la ripetizione), ma la vera musa ispiratrice delle Tre sorelle era stata, lungo tutti gli anni cinquanta, Ava Gardner – l’irrequieta contessa scalza – e non certo la materna divinità felliniana che suggella il decennio.

Un decennio d’inquietudine anche per la nostra moda che, prima ancora del sorpasso su Parigi, aveva affrontato la necessaria ripresa del dialogo con quella Scuola, dopo gli anni frustranti dell’autarchia, in cui si copiava di nascosto senza imparare granché. Inizialmente, lo scarto dei grandi designer fu un affinamento di questa base comune, per passaggi successivi: il modernismo razionalista di Chanel e di Le Corbusier rivisse, rinnovato e reinterpretato per i nuovi tempi, nelle creazioni di Pucci, Simonetta, Gabriellasport, Ferragamo: parallele, in fondo, a quelle di un Alviani, un Fontana, un Gio Ponti. Fu questo sforzo di semplificazione – ufficializzato da «Linea italiana», l’importante rivista nata a metà anni sessanta – a far sì che anche in Italia, un buon numero di donne, giovani e non, potesse comprare questi modelli, ed entrare, indossandoli, in un progetto di stile di vita più libero. Esploso, di lì a poco, in quelle straordinarie passerelle di stile che furono, nei tardi anni sessanta e nei settanta, le marce studentesche, le quali violentemente tradussero il prêt-à-porter in street style. Un suggerimento di cui ancora beneficia la parte migliore della fast fashion internazionale. E soprattutto, la nuova linea italiana attrasse i buyers dei grandi magazzini statunitensi, interessati a offrire alle consumatrici un design a prezzi abbordabili ma non dimesso, anzi messo in risalto dallo splendore dei materiali. In quel momento i tessuti furono il corpo della moda, ciò che le permise di rivaleggiare con Parigi: così come oggi – con un bel rovesciamento dei ruoli – è il corpo giovane e di taglia orientale a sostenere l’indumento «basico» di una catena planetaria come la giapponese Uniqlo, che peraltro si avvale di tessuti di qualità, in tinte unite di base.

È stato un vero peccato che la mostra non abbia approfondito la ricerca sul legame tra l’esperienza della moderna «democratizzazione» della moda e l’invenzione, sessant’anni fa, del prêt-à-porter d’autore, che poi avrebbe trionfato sotto l’etichetta del made in Italy, virtuosa e tutta milanese fusione di design e industria, stili del vestire e stili di vita. Autentica rivoluzione culturale, della quale furono emblemi, da una parte, il fugace passaggio di Walter Albini, l’inventore dello stilismo inteso come mediazione tra istanze di design e stili di vita. E, dall’altra, il contratto che, nel 1978, legò Armani al Gruppo Finanziario Tessile di Carlo Rivetti, grazie al quale la libertà creativa fece sistema con l’industria, con i risultati sul piano produttivo che tutti conosciamo. Per non dire del guru milanese Fiorucci, ancora popolarissimo al di là della Manica.

Che la Mostra non fosse interessata a questo taglio analitico risaltava nell’ultima e spoglia saletta, dove la previsione sul futuro della moda italiana era monotematicamente sviluppata attraverso l’anacronistica difesa dell’alta moda come sistema d’esclusione, d’«eccellenza», e di comunità fra «appartenenti». Tutt’altra prospettiva da quella del catalogo, vero e proprio libro da studiare, oltre che da guardare, nel quale sono rappresentati i maggiori studiosi del momento. Segno che la Mostra e il Libro si sono parlati poco.