Ciclisti, dunque delinquenti. Sentenziava così, all’alba del Novecento Cesare Lombroso e per gli appassionati della biciletta non vi era appello. Il biciclo, come lo chiamava l’autore del famoso trattato L’uomo delinquente , sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento tentava i più arditi, i più spericolati, quelli che volevano a tutti i costi provare l’emozione del nuovo, del resto salire sulla «macchina» e pedalare a spron battuto consentiva di dare velocità al corpo e vivere nuove emozioni. Dunque, sosteneva il Lombroso che il massimo della tendenza criminosa si registrava tra coloro che avevano una fascia di età tra i 15 e i 25 anni, quelli esageratamente agili, perciò concludeva senza ombra di dubbio: «Nessuno dei nuovi congegni ha assunto la straordinaria importanza del biciclo sia come causa che come strumento del crimine».

Parte da lontano Cesare Lombroso e nel suo libro I delitti vecchi e nuovi , pubblicato nel 1902, a sostegno delle sue tesi riferisce il caso di due fratelli di Torino, entrambi adolescenti, definiti «precoci in amore e nell’uso del vino, divenuti ladri per causa del biciclo». Nell’analisi tra il modello dei vecchi e nuovi criminali, che la società dell’industria alimentava come sottoprodotto, il caso di uno studente ginnasiale di 16 anni, il quale «avendo precoce sensualità, e passione precoce pel giuoco e sport, affittava una bicicletta e non la restituiva al noleggiatore, finendo in carcere».

Più chiaro il caso di un giovane di 22 anni, il quale «aveva i caratteri di un delinquente nato, cranio idrocefalo, occhio strabico, avendo preso un colpo al capo a seguito di una caduta ed essendo dedito ai piaceri più ignobili fin dall’età di 10 anni, aveva rubato un bicilo nel negozio in cui lavorava come commesso». A parziale giustifica dell’efferato furto, il Lombroso scriveva: «Bisogna però notare che la madre era isterica e pazza morale; lo zio paterno epilettico e suicida; egli ebbe turbe isterico-epilettiche da giovanissimo, il che spiega la doppia personalità, l’altruismo eccessivo da un lato e l’eccessivo egoismo dall’altro, doppia bilancia che traboccò nel delitto per causa della vanità morbosa, acuita evidentemente dalla moda del biciclo».

Non poteva mancare il riferimento al genere femminile, associato senza mezzi termini alla bicicletta come causa di tutti i mali. «Se uno si pretendeva di trovare nelle donne il movente di ogni delitto virile, si potrebbe con minore esagerazione oggi dire: cercate il biciclo!», sosteneva Cesare Lombroso. A conclusione di una serie di casi clinici correlati alla bicicletta, Lombroso attribuisce alle due ruote anche l’origine di casi di pazzia, che il noto criminologo definiva clinicamente «ebefrenia biciclica» tale era il filo rosso che legava il pericoloso mezzo a due ruote ai casi di follia. Il caso clou è quello di un ragazzo di 13 anni «figlio di operai, soffre l’ossessione di possedere una fisarmonica, poi lo prende la smania irrefrenabile dei bicicli, e tutto il giorno, essendo la famiglia povera, medita i mezzi per rubarli, senza essere scoperto, sicché i parenti si allarmano come di pazzia gravissima e criminale».

Della bicicletta all’inizio del secolo scorso, facevano uso i ladri per allontanarsi il più velocemente possibile dal luogo del misfatto, ma Lombroso non esitava a considerarla quale origine delle tentazioni delinquenziali. La sua attenzione si soffermò sui ladri di biciclette, fenomeno assai in voga fin dai primi anni del Novecento, infatti una banda di giovinastri, aveva sottratto ai legittimi proprietari «settanta o ottanta bicicli in pochi mesi», e non esitò a tratteggiare l’identikit dei ladri di biciclette, vere e prorie categorie sociali ritenute borderline: «Sono giovanissimi, agilissimi, appassionati ciclisti e della cosiddetta buona società, specialmente militari ed ex militari, meccanici, artisti o studenti con scarsezza del tipo fisiognomico criminale».

Le tesi di Lombroso ebbero un certo effetto sull’opinione pubblica, che non poteva non associare la bicicletta ai fenomeni di delinquenza, considerazioni delle quali si avvantaggiarono non poco coloro che all’interno del partito socialista si erano dichiarati apertamente antisportivi. La pratica ciclistica, poteva avere secondo il Lombroso anche un effetto terapeutico, perciò lo consigliava per le cure di «giovani epilettici, discoli, indocili, bizzarri, esauribili e frenostenici». Il ciclismo moderato poteva giovare alle malattie mentali che affliggevano quei giovinastri presi dalla frenesia del nuovo «il ciclismo regolato può avere utili applicazioni in certe nevropatie e specialmente nelle forme depressive: lo spleen e l’ipocondria; nella cura delle paresi, delle amiotrofie, della paralisi infantile, paralisi isterica, dell’esaurimento nervoso generale, della sciatica, della tabe dorsale».

Inoltre, avvertiva il criminologo «come effetto generale immediato, si ottiene dal ciclismo l’esaltazione di tutte le funzioni della sensibilità, della circolazione, della forza muscolare, che mette a capo ad una certa eccitazione dell’attività del cervello. Se il ciclismo moderato produce un’eccitazione cerebrale leggera, così che dopo una breve passeggiata, l’intelligenza è più libera e il lavoro mentale è più facile, il ciclismo smodato, invece, determinando un’eccitazione più forte e più lunga, può mettere capo a varie malattie del cervello».