Una vita consacrata allo spettacolo, vissuta quasi si trovasse in un loft trasparente alla «grande fratello» dove tutto è visibile agli occhi dei fan. Un sipario sempre alzato su un palcoscenico dove interpreta i suoi mille successi e dove nulla viene nascosto sulle vicende turbolente di un’esistenza costellata da ripetute tragedie. Fino alla drammatica uscita di scena. È la brillante quanto sofferta carriera di Iolanda Gigliotti alias Dalida, la calabrese nata alle porte del Cairo e diventata la diva della canzone francese e di mezzo mondo, così come la racconta David Lelait-Helo in Dalida. Da una riva all’altra (Odoya ed. pp.246, 16 euro.

Ne esce un ritratto a tutto tondo dell’artista, incarnazione perfetta in alcuni frangenti dell’eroina greca, che si accompagna con i mutamenti sociali in Francia, le pericolose relazioni con la politica, come nelle pagine dedicate all’amicizia con Francois Mitterrand diventa argomento da riviste scandalistiche dividendo l’opinione pubblica. Un racconto che diventa anche introspezione attenta (come bene spiega Michele Ciavarella) della fragile ma al contempo determinata personalità della cantante, capace di rigenerarsi e mutare il repertorio senza correre il rischio di risultare forzata o peggio, fuori contesto. Così che da interprete di brani latini, di motivetti che pescano a piene mani nel repertorio italiano (Bambino, la sua prima hit, è l’adattamento della celebre Guaglione di Salerno-Fanciulli lanciata da Aurelio Fierro, ma nei 70 porterà ai vertici della hit Ti amo di Umberto Tozzi)) diventa superba interprete al servizio di Trenet, Brel, Ferrè (la sua versione di Avec le temps è inarrivabile). Fino a trasformarsi in una travolgente disco diva con tanto di coreografie irresistibili quanto kitsch e boys che l’accompagnano nei balletti. È la consacrazione definitiva nel mondo transgender, dove conta centinaia di imitatori e decine di siti web a lei dedicati.

Anche il cinema si accorge di lei – quello con la «c» maiuscola, Youssef Chahine la vuole per il Le sixième jour, un film che la vedrà impegnata per diverse settimane al Cairo e dove rivive i luoghi della sua giovinezza. È il canto del cigno. Inizia a fare bilanci e sono riflessioni amare: «Ho avuto successo nella vita, ma ho mandato a monte la mia vita». Dalida ripiomba nella depressione e decide di farla finita il 2 maggio del 1987.