L’impatto emotivo è forte in tutta l’America latina, dove Nelson Mandela è considerato un’icona della lotta per l’uguaglianza e contro il razzismo. I governi, come pure decine e decine di organizzazioni per la difesa dei diritti umani del subcontinente che portano il suo nome, hanno espresso il loro cordoglio per la sua scomparsa. Ma non vi è dubbio che il paese dove più forte è stata la sua impronta e più profonda l’affinità affettiva sia Cuba. E non vi è da stupirsi. L’isola fu il primo paese dell’America a essere visitato dal leader sudafricano nel 1991, una volta riacquistata la libertà. Mandela voleva manifestare così la sua gratitudine per l’appoggio che Cuba aveva dato al suo partito, l’Anc, fin dagli anni ‘70 del secolo scorso, quando Madiba era in prigione, accusato di terrorismo e per aver dato, in Angola, un colpo mortale alla leadership sudafricana dell’apartheid.

L’incontro con Fidel all’Avana andò ben oltre ogni regola del protocollo. Per Mandela, il lider máximo era una sorta di fratello; di lotta – la sconfitta subita dalle truppe sudafricane in Angola per opera del contingente cubano fu definita da Madiba l’inizio della fine dell’apartheid in Sudafrica – e fratello di utopia. Quella di un mondo dove la democrazia fosse nutrita dall’eguaglianza. «Ho lottato contro il dominio dei bianchi, e ho lottato contro il dominio dei neri», ebbe ad affermare Mandela. Per lui ogni sudafricano (e ogni essere umano) doveva essere uguale. Il suo ideale era «una società democratica e libera nella quale tutte le persone potessero vivere insieme, in armonia e con uguali possibilità». Per Fidel l’igualitarismo era uno dei pilastri del socialismo cubano, oggi però in via di profonda «modernizzazione», ovvero riforma.

Il governo dell’Avana ha indetto due giorni di lutto ufficiale e uno di lutto nazionale, domenica, quando ogni spettacolo pubblico sarà sospeso e la giornata sarà dedicata alla memoria del leader sudafricano. Le condoglianze ufficiali le ha espresse il presidente Raúl Castro in un telegramma al suo omonimo sudafricano, Jacob Zuma, dove si ricorda «la grandezza dell’opera di Mandela», leader e uomo del quale «non si può parlare al passato». Tutti i mass media, governativi per antonomasia, hanno dedicato ampio spazio alla figura dello scomparso amico di Cuba. È stata ricordata anche la lettera che Fidel inviò in occasione del 92simo compleanno di Madiba, nel 2010 – da quattro anni si era ritirato dalla presidenza a causa di una grave malattia – nella quale il leader cubano considerava «il vecchio e prestigioso amico» un «simbolo della libertà, giustizia e dignità umana» che « resterà nella memoria delle future generazioni».

Questo forte senso di amicizia e solidarietà politica è nato e si è sviluppato nel «secolo breve», nel quale i due leader si sono conquistati un posto di rilievo proprio per la forza, la coerenza e soprattutto la radicalità con le quali hanno perseguito il loro scopo. Madiba mai ha ceduto al sistema apartheid. Fidel mai ha ceduto al sistema capitalista. Contro la volontà del primo non sono serviti quasi trent’anni di carcere duro. Non hanno fiaccato il secondo più di cinquant’anni di – illegale e criminale – blocco economico.

L’amicizia e la reciproca ammirazione, proprio per questo, non vennero meno negli anni che seguirono il primo incontro a Cuba. Nemmeno quando Mandela, presidente impegnato nell’ardua opera di riconciliare un Sudafrica ferito e diviso da tanti anni di apartheid, rifiutò di cedere alle pressioni – interne e internazionali – perché prendesse le distanze da Fidel, definito oligarca o peggio dittatore anche da una parte della (sedicente) sinistra europea. «Sono un uomo leale – ribatteva Madiba – mai potrò dimenticare che nei momento più difficili della nostra patria, nella lotta contro l’apartheid, Fidel Castro si pose al nostro fianco». E a coloro che insistevano pubblicamente, Mandela disse apertamente che potevano andare a quel paese. Tale atteggiamento gli è valso feroci critiche e accuse da parte dell’opposizione interna all’isola e degli anticastristi di Miami, che accusano Madiba di aver coperto col suo prestigio e reiterato appoggio un «regime dittatoriale» che, tra l’altro, «non ha risolto il razzismo strutturale» nell’isola.

Il radicalismo di Mandela e Fidel Castro oggi non è di moda. In un’epoca in cui predomina e conta la governance, non si palesano e forse non si formano perché non necessari, personaggi politici di grande statura e carisma, «universali» per i valori professati, come Madiba e, almeno a livello latinoamericano, Fidel. Quando uno di loro muore se ne va un pezzo del secolo che ha visto i più grandi sconvolgimenti, ma anche i più grandi leader. Universale, nel senso ridotto di globale, resta il capitale.

Per questo colpisce il silenzio – almeno fino a oggi – di Fidel Castro che a 87 anni, malato (non si sa molto del suo stato di salute) e da tempo fuori della scena politica, lascia la parola alla ragione di Stato, al fratello Raúl, che da sette anni governa e rappresenta Cuba. La fine dell’igualitarismo a favore di una redistribuzione più mirata delle scarse risorse del Paese (concentrata soprattutto nell’istruzione e nella sanità gratuite); l’espandersi del lavoro por cuenta propria, che in realtà è privato anche se nessuno ufficialmente utilizza questo termine e l’inevitabile conseguenza di un allargarsi della brecha (forbice) sociale; la prospettiva di aprirsi progressivamente agli investimenti esteri (per supplire alla carenza di capitalizzazione interna): tutti segni di cambiamenti (modernizzazioni) che non sembrano provenire dal lider maximo e fanno da contraltare al suo silenzio.