Nella storia del rock e del pop quasi sempre i gruppi (e i singoli) si scrivono le proprie canzoni, costruendo pezzo per pezzo, album dopo album, un repertorio durevole, che, solo a successo raggiunto, aggiunge, qui e là, come ciliegine sulla torta, una o più cover, dal vivo o in studio: è la dimostrazione di un talento in grado di spaziare in altri generi o di «saperci fare» come i jazzisti, i cui songbook risultano da sempre immensi serbatoi di brani altrui, con standard celebri (e celebrati), quasi evergreen coverizzatissimi. La cover, nel pop e nel rock, può inoltre diventare un omaggio a un mito o un «collega» del passato (o del presente) oppure un tributo alla potenza della forma-canzone quale «opera perfetta» e «opera aperta» al di là di vincoli o barriere. Esistono tuttavia differenti casi – e qui se ne leggono una ventina pensando agli esempi più famosi ed eclatanti – di rock band o solisti che raggiungono l’esito commerciale (e talvolta artistico) migliore proprio grazie a una cover, che resterà per sempre il proprio «marchio di fabbrica» quasi a oscurare quanto di valido si faccia prima, durante o dopo.

The Kingsmen, «Louie Louie» (1963)

Il quintetto di Portland (Oregon) è ancora una garage band quando decide di registrare la cover, datata 1957, di Richard Berry, ovvero un calypso venato di r’n’b, influenzato da Havana Moon di Chuck Berry (nessuna parentela fra i due). Secondo la leggenda, la notte prima di incidere il secondo singolo, i Kingsmen suonano Louie Louie per 90 minuti di fila a un concerto, per andare poi in studio il giorno successivo e registrare il pezzo in un sol colpo, con i cinque disposti in cerchio attorno a un unico microfono. In qualche modo, è proprio questa sciatteria, quasi proto-punk, a lavorare a favore dei ragazzi, centrando in pieno l’obiettivo. Nonostante i testi incomprensibili (e giudicati osceni dai benpensanti che ne proibiscono la diffusione presso alcune emittenti locali), il canto rauco, il ritmo battente, il breve assolo, incontrano il favore dei dj radiofonici e di tantissimi adolescenti, facendo dei Kingsmen uno dei più duraturi complessini degli anni Sessanta.

The Animals, «The House Of The Rising Sun» (1964)

Il brano risulta, da tempo, inestricabilmente legato alla popolarissima cover dei cinque Animals, mentre le versioni precedenti, benché valide o importanti, vengono quasi di colpo rimosse o trascurate. La ballata in origine è un motivo popolare, che rientra fra i tanti raccolti, sul campo, dall’etnomusicologo Alan Lomax, grazie alle pionieristiche registrazioni degli anni Trenta. Da lì The House of the Rising Sun viene ripresa e modificata da un vasto numero di artisti, dal blues (Josh White e Leadbelly) al folk (Pete Seeger e Joan Baez), dalla protest song (Bob Dylan e Dave Van Ronk) al beat africano (Miriam Makeba). Ma è la versione del folksinger Johnny Handle ad attrarre la curiosità degli inglesi Animals, che la fanno propria con arpeggi di chitarra elettrica, con il ritmo scandito dall’organo e con il vocalismo strozzato di Eric Burdon in chiave rock blues: nelle loro mani, diventa un inno dei giovani, del beat e della British Invasion.

The Byrds, «Turn, Turn, Turn» (1966)

I pionieri del folk rock David Crosby e Roger McGuinn cominciano a studiare le possibilità di incrociare i due mondi (il folk e il rock, appunto) partendo dalle chitarre: da un lato McGuinn sceglie un’inglese Rickenbacker 12 corde perché il beatle George Harrison ne suona una; dall’altro Crosby sceglie numerosi pezzi del Bob Dylan acustico per il nascente quintetto. L’album di debutto Mr. Tambourine Man (1965) non a caso ha ben quattro cover dylaniane (title track compresa) con la band che va ancor più in profondità nel costruire un nuovo folk: in questa cover da Pete Seeger – che la scrive negli anni Cinquanta ma l’incide solo nel 1962 – David e Roger aggiungono inedite armonie corali, un suono chitarristico tintinnante che va al là dell’aspetto meditativo originale (composto sul libro dell’Ecclesiaste). La cover dei Byrds vola al numero 1, mentre, negli anni successivi, molti original, firmati anche dagli altri membri Gene Clark e Chris Hillman, vantano successi inferiori, giacché i cinque «Uccelli» non raggiungeranno mai la top ten con una loro canzone.

Aretha Franklin, «Respect» (1967)

Nella versione originaria di Otis Redding del 1965, il brano è una hit di proporzioni modeste che non va oltre il numero 35 della Billboard Hot 100 Chart. Nelle mani di un giovane quartetto come i Vagrants – che ne fanno un exploit locale, nel 1967, con una versione garage rock – il testo del soulman su onore e fedeltà aumenta il tasso di misoginia. Ci vuole un’altra grande voce r’n’b, Aretha Franklin, per trasformare Respect da standard pop a personalissimo biglietto da visita musicale. Lavorando sul pezzo di Redding per l’album I Never Loved a Man the Way I Loved You, Aretha opta per un mutamento cruciale della prospettiva letteraria, assicurandogli un ruolo simbolico determinante come inno non ufficiale dell’emergente movimento femminista. Sostenuta dalle sorelle Erma e Carolyn, la Franklin esige rispetto anche nella giusta ripartizione della cover medesima, confermando che, sebbene Otis Redding scriva Respect, la canzone appartiene pure ad Aretha Franklin

Joe Cocker, «With a Little Help from My Friends» (1968)

Il brano viene scritto dai Beatles (o meglio da Lennon e McCartney) con l’idea di dare qualcosa da cantare anche a Ringo Starr per l’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967) affibiandogli, come sempre, i motivetti più facili e più stupidi. Ma, nelle mani di un ancora sconosciuto bluesman di Sheffield, il pezzo viene musicalmente stravolto da cima a fondo, diventando un lento rabbioso che monta in testa alle classifiche nel Regno Unito, facendo girare il nome di Joe Cocker all’estero, fino alla consacrazione iconica nella lunga performance a Woodstock. La versione di Cocker impressiona favorevolmente i Beatles che gli concedono la licenza a eseguire altri due loro pezzi per il secondo album: la stella di Joe continua a brillare «con un piccolo aiuto» di questi e altri amici (il giamaicano Jimmy Cliff per esempio) grazie ai quali offrirà splendide parafrasi delle loro canzoni. Ma l’immagine e la carriera del vocalist fricchettone rimarranno per sempre legate alla sua Friends.

Three Dog Night, «One» (1969)

La maggior parte dei successi dei Three Dog Night risultano effettivamente scritti da altre persone, che aiutano la band a scalare più volte le classifiche dei dischi tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi Seventies. Il maggior successo dell’ottetto con tre voci soliste resta One (noto anche come One Is the Loneliest Number) che viene composto dal folksinger Harry Nilsson nel 1967, senza però ottenere grossi esiti commerciali, al punto che, al giorno d’oggi, la versione originale è dimenticata, mentre le radio americane continuano a trasmetterne la cover rock assai più ritmata, quasi in vena di r’n’b.

Ike and Tina Turner, «Proud Mary» (1970)

All’epoca in cui registra il celebre pezzo dei Creedence Clearwater Revival, il duo soul afroamericano ha già alle spalle oltre un decennio di carriera e circa venti album a proprio nome. Ma, nonostante diversi tentativi in direzione pop, il successo si rivela quasi sempre effimero per i coniugi Turner, quando passano dal r’n’b al mainstream. Fresca dell’esperienza come supporter per i concerti dei Rolling Stones, l’anno prima, la grintosa coppia non è estranea alle cover di notissime melodie rock: ecco quindi per Ike & Tina il biglietto da visita con l’eccitata ed eccitante interpretazione (soprattutto nella provocatoria sensualità della vocalist) della hit che i Creedence incidono un anno prima. Proud Mary in chiave black raggiunge il quarto posto nella hit parade, vendendo, come singolo, più di un milione di copie, guadagnando l’apparizione all’Ed Sullivan Show, così come la vittoria di un Grammy per la migliore performance di r’n’b vocale nel 1972.

Elvis Costello, «(What’s So Funny ’bout) Peace, Love and Understanding» (1978)

In veste di cantautore rock, Elvis Costello è l’artefice di alcune tra le più belle composizioni dell’era post punk da Alison a Pump it Up, da Almost Blue a Everyday I Write the Book, fino al recente album capolavoro scritto assieme al vecchio Burt Bacharach. Ma la canzone che meglio lo rappresenta (e per la quale è conosciuto in tutto il mondo) viene scritta nel 1970 dall’amico e produttore Nick Lowe, il quale è anche il primo a registrarla con la propria pub band Brinsley Schwarz nel 1974. (What’s So Funny ’bout) Peace, Love and Understanding nell’immenso songbook costelliano vanta dunque la vita più lunga: il che è tutto dire considerando la feroce concorrenza di ben altri pezzi dello stesso geniaccio londinese.

Joan Jett, «I Love Rock’n’Roll» (1979)

Stando agli unanimi consensi attorno alla band, il nuovo singolo degli Arrows dovrebbe essere il colpo grosso per tutto il 1975: presentato in un noto show televisivo inglese (come pure negli States), non basta per risalire nelle classifiche britanniche. Invece, Joan Jett, che vede il gruppo negli Stati Uniti da spalla al tour delle Runaways, è folgorata da I Love Rock’n’Roll che subito incide assieme a musicisti come Steve Jones e Paul Cook dei Sex Pistols. Il brano originariamente appare quale lato b di You Dont Own Me, ma Jett non è soddisfatta e quindi lo registra di nuovo nel 1981 assieme al proprio quartetto The Blakhearts: la grinta hard rock della cover vale la cima di Billboard e la carriera solista della bruna cantante di Filadelfia.

Kim Carnes, «Bette Davis Eyes» (1981)

Scritto nel 1974 da Donna Weiss e Jackie DeShannon – quest’ultimo musicista di talento che nel 1964 apre la tournée americana dei Beatles e poi compone brani assieme a Jimmy Page e Randy Newman – il brano trae ispirazione dal film drammatico e proto-femminista Perdutamente tua (1942), grazie alla scena in cui Paul Henreid accende una sigaretta a Bette Davis. Diversi anni dopo, Weiss porta la canzone a un’amica, la cantante e autrice Kim Carnes: e dopo che il tastierista Bill Cuomo ripulisce la melodia con alcuni synth, Bette Davis Eyes è pronta a decollare, restando al n° 1 per nove settimane nelle classifiche e vincendo sia il Grammy Award sia il Record of the Year del 1982.

Soft Cell, «Tainted Love» (1981)

Nel 1976, la cantante soul americana Gloria Jones – già corista nei T. Rex, nonché fidanzata del loro epico frontman Marc Bolan – riregistra questa canzone già incisa nel 1964: e proprio durante i Sixties il meditabondo e cadenzato inno strappalacrime resta un punto fermo dei dj inglesi di gusto northern soul. Ma Tainted Love diventerà famosa nel mondo nel 1981, quando il duo inglese con Marc Almond e David Ball ne offre un a versione tecnopop arrivando in testa alle patrie classifiche e all’ottavo posto negli Stati Uniti. A proprio vantaggio, i Soft Cell non giocano sulla fedeltà o sulla nostalgia: la cover è di proposito lenta, misteriosa e sensuale, un inno dancefloor duraturo che contesta l’idea che i sintetizzatori tipici della new wave debbano per forza apparire freddi o spersonalizzanti.

Quiet Riot, «Cum on Feel the Noize» (1983)

Originariamente realizzato dai britannici Slade, capostipiti del glam, nei primi anni Settanta, il brano è per il quartetto heavy losangeleno il maggiore successo, facendo compiere, un decennio più tardi, un importante passo in avanti per l’affermazione di un pop metal, venato di hard rock. La cover dei Quiet Riot non differisce molto dall’originale, con la piccola sostanziale differenza di raggiungere subito il quinto posto nella Billboard Hot 100, spingendo l’album Mental Health al disco di platino. L’anno successivo il gruppo inserisce nel nuovo 33 giri Condition Critical un’altra cover degli Slade, Mama Weer All Crazee Now, nel tentativo di bissare l’exploit mondiale, ma l’espediente stavolta non funziona.

Run-D.M.C., «Walk This Way» (1986)

Non c’è dubbio che i Run-D.M.C. abbiano un posto assicurato nella storia della musica anche senza la cover del pezzo hard rock degli Aerosmith uscito nel 1975, ma il successo commerciale del trio hip hop inizia (e per certi versi si conclude) con il rifacimento black di Walk This Way undici anni dopo. Il brano – prodotto da Rick Rubin con la partecipazione di Steven Tyler e Joe Perry, i due leader del quintetto di Sunapee – risulta il primo rap in assoluto nella top five di Billboard, confermandosi, alla distanza, fondamentale nella messa a punto del cosiddetto rap rock (e il clip ne rappresenta simbolicamente l’incontro/scontro).

Los Lobos, «La Bamba» (1987)

Los Lobos, insieme dal 1973, con oltre venti album alle spalle, è il sestetto tex-mex (o rock chicano) più noto in assoluto e osannato nel mondo per le singolari versioni del repertorio folk messicano. I «Lupi» vengono chiamati per la musica di Richie Valens nel biopic La Bamba di Luis Valdez, nella cui soundtrack si ascoltano sei canzoni dello sfortunato cantautore, morto a diciassette anni nell’incidente aereo in cui perdono la vita anche Buddy Holly e Big Bopper. E La Bamba originale, che rilanciata postuma nel 1959 si piazza al numero uno in otto paesi (compresi Stati Uniti e Gran Bretagna), è assunta e pensata da Los Lobos quale omaggio al genio precoce del losangelino, che dal quartiere multietnico di Pacoima, rifà in chiave pop rock, un song latino di solito cantato in occasione di matrimoni e battesimi nello stato di Veracruz. L’originale, un po’ più lento rispetto alle due cover, è documentato fin dal 1830.

David Lee Roth, «California Girls» (1988)

Quando il frontman dei Van Halen decide di lasciare il gruppo e tentare la carriera solista, lo fa in un modo sorprendente con l’ep Crazy From the Heat, formato da quattro cover eccellenti. Il materiale incluso comprende un repertorio in origine promosso via via dall’Edgar Winter Group, dal jazzman Louis Prima, dai Lovin’ Spoonful e soprattutto da questo brano surf che proietta Roth al numero 3 della hit parade anche grazie a un videoclip saturo di belle ragazze in succinti bikini. Per interpretare questa song del 1965 dei Beach Boys, Roth s’avvale ai cori di uno di loro, Carl Wilson, nonché del cantautore Christopher Cross; in quel 1988 del resto con l’album Skyscraper sale in cima alle classifiche rock americane, ben supportato dal singolo Just Like Paradise, benché sia proprio California Girls a garantirgli il successo di sempre e l’imperitura Billboard Hot 100.

Sinead O’Connor, «Nothing Compares 2 U» (1989)

La versione originale resta sostanzialmente dimenticata, benché venga eseguita da The Family, un progetto utilizzato da Prince (e con ex membri di The Time) come valvola di sfogo per il copioso songwriting che il genietto di Minneapolis accumula a metà degli anni Ottanta. Rimasto nel dimenticatoio per due-tre anni, dunque vicino al fallimento commerciale, il brano viene però riconsiderato dal manager di Sinead O’Connor che lo suggerisce, quale single, alla giovane cantautrice irlandese, che, a sua volta, lo tramuta nel maggior successo di una lunga impegnativa carriera. Grazie a lei Nothing Compares 2 U ispira una vagonata di nuove cover, con Prince che inizia a suonarlo dal vivo, fino a farne una propria versione nell’album Hits. Resta tra l’altro la canzone che spinge la calva dublinese verso i riflettori del mainstream, un genere in cui si trova spesso a disagio sul piano esistenziale.

The Lemonheads, «Mrs. Robinson» (1992)

Sulla scia di Nevermind dei Nirvana che fa impazzire l’industria musicale dei primi anni Novanta, le grandi major americane propongono contratti favolosi a qualsiasi giovane band il cui credito indie rock sembri vagamente commerciale. Solo dopo la firma sugli anticipi, lo show business si accorge che in fondo i vari gruppi alternativi, salvo rarissime eccezioni, non vanno al di là di audience specialistiche. Infatti l’eccellente album It’s a Shame about Ray del trio di Boston originariamente non include la cover dell’ormai classicissima ballata di Simon & Garfunkel, ma quando le «teste di limone» registrano un video per il 25° anniversario del film Il laureato (dove Mrs. Robinson è di fatto il leit-motiv), la nuova versione (molto più rock) decolla. E l’Atlantic ristampa quasi subito It’s a Shame about Ray con l’aggiunta della cover. Il tutto funziona, anche perché Mtv offre alla fresca Mrs. Robinson molto più spazio di quanto faccia con gli altri pezzi dell’album. Ma né prima né dopo i Lemonheads riescono a conseguire tanta attenzione mediatica.

Whitney Houston, «I Will Always Love You» (1992)

La soulgirl di Newark è già una stella pop quando interpreta il ruolo della cantante famosa nel film The Bodyguard di Mick Jackson. Ovviamente Whitney deve registrare un leit-motiv per la colonna sonora, da evidenziare soprattutto durante le scene finali e nei titoli di coda. La canzone che in origine la Houston vorrebbe, What Becomes of the Broken-Hearted, viene però utilizzata in Pomodori verdi fritti, e allora è il coprotagonista Kevin Costner a suggerirle I Will Always Love You scritta nel 1974 da Dolly Parton e interpretata da Linda Ronstadt (entrambe dive del country). La vocalist acconsente, sfornando ben presto uno dei singoli romantici più amati di tutti i tempi: la versione della Parton è infatti molto sdolcinata e la cover della Ronstadt troppo sentimentale, mentre la sfortunata afroamericana trova qui l’equilibrio perfetto, che non ripeterà più in tutta la successiva carriera.

Jeff Buckley, «Hallelujah» (1994)

Per molti, l’Hallelujah dello sfortunato Jeff Buckley (morto giovane come il padre Tim, anch’egli cantautore) è la versione definitiva del brano stesso, ignorando che non si tratta di un original, bensì della cover di una cover. Buckley s’ispira difatti alla versione del 1991 dell’ex Velvet Underground John Cale, il quale, a sua volta, pesca da quella autentica composta dal canadese Leonard Cohen nel 1984, comunque già famosa nei toni poeticamente oppressivi e deprimenti. In circa trent’anni le cover di Hallelujah sono quasi seicento in almeno venti lingue e nel 2008 vantano oltre cinque milioni di copie vendute nelle interpretazioni di Buckley, Cohen, Cale, come pure di Rufus Wainwright o anche di Adam Sandler, il quale eseguirà una versione satirica nel 2012 durante uno show benefico per le vittime dell’uragano Sandy.