«È un vero e proprio ricatto. Lo fanno perché sono consapevoli che abbiamo bisogno di aiuto esterno, di sostegno. Ma io rimango convinto che l’accordo con gli americani non vada firmato. Che accordo può esserci con chi ti ricatta?». Un viso largo, la barba appena accennata e gli occhi scuri, Asif Shinwari è uno dei più noti giornalisti radiofonici di Jalalabad, il capoluogo della provincia orientale di Nangarhar, al confine con il Pakistan. Lavora per la radio-televisione iraniana e per il network televisivo in lingua araba «Al Alam». Lo incontro nel suo ufficio, in una traversa laterale della via centrale della città. Mi accoglie mostrandomi il suo ultimo libro, un manuale sull’arte delle interviste radiofoniche, ma subito torna a parlare della sua passione: l’attualità politica.

Qui a Jalalabad come in tutto l’Afghanistan parlare di attualità politica significa parlare dell’Accordo bilaterale di sicurezza con gli Stati Uniti. A fine novembre si è tenuta a Kabul la Loya Jirga, la Grande assemblea che ha visto la partecipazione di 2.500 delegati dalle 34 province del paese. Accuratamente selezionati dal governo, i delegati hanno approvato l’Accordo, che prevede la presenza dei soldati americani (forse 10/15.000) anche dopo il 2014 e l’uso di almeno 9 basi militari. Karzai però ha preso tempo. Prima di ratificarlo, chiede che gli americani soddisfino altre condizioni, tra cui il rilancio del processo di pace. È così che è cominciato quel che Asif Shinwari definisce «ricatto»: niente firma – hanno ribadito molti membri dell’amministrazione Obama, tra cui la consigliera per la sicurezza nazionale Susan Rice – niente soldi. Né quelli stanziati nel luglio del 2012 alla conferenza di Tokyo (16 miliardi di dollari destinati allo sviluppo, distribuiti in quattro anni), né quelli promessi nel maggio del 2012 alla conferenza di Chicago (3,6 miliardi di dollari annui per sostenere le forze di sicurezza afghane). Alle minacce degli americani si sono aggiunte quelle del segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, che nella conferenza ministeriale di inizio dicembre lo ha detto chiaro e tondo: senza quell’Accordo, anche la Nato farà le valigie, alla fine del prossimo anno. E con le valigie scomparirà ogni futuro impegno finanziario dei Paesi della Nato.

A Washington e Bruxelles sanno come scegliere gli «argomenti» più convincenti. Qui a Jalalabad, per esempio, le preoccupazioni economiche sono molto sentite: «Siamo un Paese debole, dal punto di vista militare, economico e politico. Ecco perché abbiamo bisogno di quell’accordo. È una scelta pragmatica: accettare gli americani o andare incontro a un futuro molto incerto», mi ha detto Hedayatullah Amam, un ingegnere sui cinquant’anni dall’aspetto molto signorile, quando l’ho incontrato su uno dei taxi collettivi che collegano la capitale Kabul a Jalalabad. Per Nurrahmad Nurrani, direttore in quest’area del paese della Youth Federation, un network di gruppi giovanili, «è indispensabile che gli stranieri mantengano gli impegni di Tokyo e Chicago. Senza quei soldi, rischiamo il collasso economico in pochi anni. E più deboli siamo economicamente e più facile sarà interferire per i nostri vicini». Il timore di rimanere da soli – con un esercito numeroso ma impreparato e con poche armi, nel bel mezzo di una regione fortemente conflittuale, con vicini pronti a tutto pur di esercitare l’egemonia nell’area – è molto diffuso. Tra la gente comune come nell’establishment: senza l’accordo con gli americani l’Afghanistan «tornerà a essere isolato, come un agnello tra i lupi nel deserto», ha dichiarato Dadfar Rangin Spanta, il consigliere di Karzai per la sicurezza nazionale, a metà novembre di fronte ai parlamentari della Wolesi Jirga. «La nostra prima preoccupazione è la sicurezza», conferma il dottor «Tasal», esponente della Welfare Association di Jalalabad, un’associazione che porta aiuto alle famiglie più bisognose e che non ha mai accettato fondi stranieri, «per rimanere indipendenti e perché vogliamo rilanciare la cultura della solidarietà, uccisa dalle Ong straniere». Per lui, il pericolo è che «quando le truppe straniere se ne andranno ricomincino le rivalità dei nostri vicini, più di prima. Ci sono Paesi come Iran, Pakistan, Russia che combatteranno le loro guerre per procura sul nostro territorio». Neanche «Tasal» però è convinto che accettare le basi militari degli americani sia la ricetta giusta per evitare le interferenze dei Paesi vicini e l’abbandono della comunità internazionale. «È una scelta difficile», ammette. «Dovremmo capire bene se gli interessi degli americani contraddicono o meno i nostri valori e i nostri interessi. Nel caso fosse così, è evidente che il conflitto continuerà». Sembra avere le idee più chiare Khairullah Khiaal, responsabile qui a Jalalabad dei contenuti editoriali per Killid Radio, un network di radio indipendenti con sedi in molte città afghane. «Le basi degli americani possono essere usate per impedire all’Iran e al Pakistan di rovinarci la vita ma anche per interferire nei nostri affari, e questo non è accettabile. Inoltre gli insorti non vogliono neanche un soldato straniero sul suolo afghano. Con le basi, gli attacchi contro gli stranieri e il governo afghano continueranno», si dice convinto Khiaal. Per Baz Mohammad Abid, giornalista di Radio Mashaal, la costola locale di Radio Free Europe, la questione è ancora più semplice: «Bisognerebbe chiedersi perché gli americani vogliono rimanere qui. Se costruiscono o usano delle basi militari, è perché vogliono fare una guerra, in Asia centrale o meridionale. Se non vogliono fare una guerra, che se ne vadano», risponde sicuro. Il ritiro, puntualizza il dottor «Tasal», non deve però significare un disimpegno completo. Andarsene senza pianificare il futuro del Paese, senza chiarire l’impegno dei prossimi anni, «è come lasciare incustodito un fuoco dopo averlo acceso. Quel fuoco si alimenterà da solo e finirà per incendiare le case, bruciare le persone. Lasciare il Paese a se stesso, senza un’economia funzionante e senza una strategia chiara per il futuro, è completamente insensato», sostiene «Tasal» prima di uscire dal suo ufficio con alcuni borsoni pieni di abiti usati da distribuire nei distretti rurali. Per Asif Shinwari l’unica alternativa è invece quella di non firmare l’accordo con gli americani: «Non farà che crearci problemi. All’interno del Paese, con i gruppi che non vogliono gli stranieri, e all’esterno, con i nostri vicini. Di loro non possiamo fidarci, è vero. Ma possiamo forse fidarci degli americani?».