«Dovunque vada in questo mondo, mi ritrovo a parlare della morte di mia madre» – scriveva Jonathan Lethem nel 2005, a conclusione delle Memorie di un artista della delusione. E in effetti, fino a quel momento, tutti i suoi romanzi più importanti ruotavano intorno all’assenza di figure materne: dal fantascientifico Ragazza con paesaggio al thriller atipico Brooklyn senza madri, al suo lavoro più famoso, La fortezza della solitudine, storia di padri abbandonati dalle mogli, deboli e depressi e dei loro figli cresciuti anch’essi come orfani. A distanza di una decina d’anni, con I giardini dei dissidenti (traduzione di Andrea Silvestri, Bompiani, pp. 536, euro 19.50) Lethem mette finalmente la madre – anzi, le madri – al centro di una storia, anzi, di una controstoria del Novecento americano, raccontata attraverso le vicende di tre generazioni di ebrei comunisti. Due donne ne sono protagoniste: la battagliera Rose, «Regina Rossa» del Queens, che nel suo intimo cela «un vulcano di morte» in cui «gli ideali del comunismo americano erano andati a morire la loro lenta morte per l’eternità»: più che una donna un «monumento di carne» che commemora «il fallimento del socialismo come una segreta ferita». E sua figlia Miriam, un’Alice ribelle che trova il suo paese delle meraviglie nel Greenwich Village per poi ritrovarsi lacerata attraversando lo specchio della guerriglia sandinista.

A loro si affianca una presenza femminile ben altrimenti evanescente, Diane, moglie del poliziotto di colore amante di Rose, e madre di Cicero, futuro accademico, somma vivente di ogni diversità, in quanto nero, obeso e gay. È proprio a partire dall’assenza di Diane, o meglio dal suo lasciarsi scomparire, contrapposto alla prepotenza con cui le altre due donne si intromettono nella sua esistenza, che Cicero svela, in un estemporaneo seminario all’università, il proposito dell’intero romanzo: parlare delle madri, ma «non delle madri nei libri, perché … Questa roba non è intrappolata nei libri. È intrappolata nei corpi, i libri servono a tirarla fuori».

Romanzo di corpi, dunque, prima ancora che di idee, I giardini dei dissidenti mostra personaggi di carne e sangue in cui la Storia trova espressione fisica e l’elemento politico si confonde irrimediabilmente con quello personale. Orfani tutti, o destinati a diventarlo, ossessionati da fantasmi genitoriali «impossibili da ricostruire nella memoria che li aveva espunti», attraverso le loro diversissime storie tenute insieme da una comune concezione della Storia, questi personaggi compongono il grande romanzo americano di Lethem: più che un romanzo sociale o politico, un tentativo, per ammissione dello stesso autore, di «parlare per voci», di dare parola a situazioni di marginalità (etniche, razziali, di genere e di classe), spesso ignorate dalla narrativa maschile bianca statunitense, un lavoro di notevole spessore letterario e linguistico cui avrebbe giovato un editing un poco più attento (possibile che da Bompiani nessuno sappia che Tom Thumb è il nostro Pollicino?).

Rose, abbandonata dal marito Albert, un ebreo tedesco espulso dal partito nel 1956 e spedito nella Ddr, cresce da sola la figlia, dopo aver sperimentato sulla propria pelle il fatto che «il partito, con il suo talento per le macchinazioni, distruggeva sistematicamente l’affettuosa fiducia su cui avrebbe dovuto basarsi un matrimonio tra cosiddetti uguali». Con il passare degli anni e il diminuire degli sguardi maschili ammirati al suo passaggio, Rose diviene «meno donna e più animale politico, o forse più bisbetica moralista», fino a rendersi conto, a un passo dalla demenza senile e dalla fine, che «era il suo utero ad averla relegata là dove adesso sentiva la sua appartenenza, nei ranghi dei perdenti della storia». Né miglior sorte attende la figlia, destinata, dopo un’adolescenza di trasgressioni, a riprodurre in seno a una comune hippy «quello che aveva sentito il bisogno di far saltare in aria» nel Queens, pur avvertendo tutta la «claustrofobia dell’amorevole dovere di madre».

Approfondendo un’osservazione di Doris Lessing, Lethem dimostra come il problema di tutte le ideologie utopistiche risieda nella loro opposizione alla tirannia della famiglia borghese, «un’impresa fondamentalmente priva di speranza». Se Rose è incapace di salvare Miriam da un destino tragico, Miriam a sua volta genera un bambino destinato troppo presto a rimanere orfano e ad affrontare l’età adulta come «una cellula formata da un’unica persona, palpitante come un cuore». Quanto agli altri protagonisti maschili, il cugino di Rose, Lenin detto Lenny, è abbandonato adolescente dai genitori, partiti alla ricerca della Terra Promessa in Israele, mentre Cicero, cresciuto in una famiglia in cui predomina «un atteggiamento da triage, rivolto verso l’emergenza permanente dell’essere vivi», deve far fronte al disgusto che la sua omosessualità suscita nel padre.

Dagli anni della Grande Depressione, che «avrebbe dovuto attizzare la rivoluzione, e invece l’aveva spenta», al 2012, Lethem non solo segue, senza un ordine cronologico, la decadenza e la fine della sinistra americana, ma traccia anche un profilo alquanto sfaccettato dell’«apolide, ironico Popolo del Libro», eternamente «braccato dalla storia». Sono soprattutto i tardi anni cinquanta, che vedono l’espulsione dal partito prima di Albert e poi di Rose, ad assumere particolare rilevanza in questo contesto: anni in cui nessuno più osa proclamarsi comunista, tranne Rose e Lenny, e la vita quotidiana appare come «un paziente sopravvissuto a una tremenda operazione chirurgica in cui aveva rischiato di morire, quella del suo distacco dalla storia». Resta, per gli Ultimi Comunisti, l’orgoglio della lotta, indipendentemente dal risultato.

Elegia ironica e tragica al contempo di tre generazioni di perdenti, ambizioso tentativo di recuperare attraverso le loro esistenze fittizie la storia dimenticata (o cancellata dalla storiografia dei vincitori) del comunismo americano, I giardini dei dissidenti narra, senza sentimentalismi, la desolazione succeduta alla promessa di un futuro rivoluzionario e la delusione di chi ha continuato a crederci, «sorretto da null’altro che dalla volontà di continuare».

I recensori americani non hanno esitato a lanciarsi in ardite comparazioni tra la saga radicale degli Agrush-Zimmer e quella alto-borghese dei Buddenbrook (non a caso Albert, nella sua infanzia a Lubecca, abita accanto alla «casa dei Buddenbrook»). Ma è piuttosto lo spettro di Philip Roth ad aggirarsi nei Sunnyside Gardens, il «Villaggio Utopico Socialista» del Queens in cui abitano Rose e Lenny, mentre nei vari episodi del romanzo si possono rintracciare echi ora di Saul Bellow ora di altri scrittori – oggi forse dimenticati – che hanno raccontato la quotidianità della gente comune: gli americani Nelson Algren e Upton Sinclair e l’australiana Christina Stead, autrice di uno dei migliori romanzi proletari novecenteschi, Sette poveracci di Sidney, alla cui autobiografia I’m Dying Laughing lo stesso Lethem ha ammesso di essersi ispirato.

Abbandonati i fumetti, la fantascienza, i riferimenti alla cultura pop e gli elementi surreali che caratterizzavano la sua precedente produzione, con quest’opera Lethem entra nella maturità narrativa, conservando tuttavia quell’attenzione particolare ai luoghi che costituisce la sua cifra distintiva. Per lui come per il folk singer Tommy Gogan, marito di Miriam, New York è ancora «il veicolo del suo canto segreto, che la città stessa sembra volere sentirgli intonare». La parabola dei comunisti americani parte dai Sunnyside Gardens del Queens, attraversa il Greenwich Village, per andare significativamente a morire nei «giardini della collettività», un terreno abbandonato dove saranno sparse le ceneri degli ultimi, ingenui, rivoluzionari. È qui, nell’estremo saluto a Miriam, personaggio chiaramente ispirato alla madre dello scrittore, che la perdita attorno cui ruota l’intera opera di Lethem si rivela spazio su cui fondare ancora una volta la narrazione. Ogni strada, ogni movimento – dal Queens al Greenwich Village, da Dresda a El Salvador, dal Maine a Boston – riporta infine a un «nessun luogo» che appare figura del «dovunque» in cui lo scrittore si ritrova a parlare, una volta di più, della madre e della sua morte.