Davanti all’ultima raccolta di racconti di Alice Munro la lettrice affezionata ha l’impressione di far visita a una vecchia amica, o a un’amica invecchiata: «ultima» questa raccolta lo è non solo in ordine cronologico, ma nel senso di definitiva. Più volte nel corso della sua lunga carriera Munro ha dichiarato di voler abbandonare la scrittura, e ogni volta – a sorpresa ma non proprio – arrivava una nuova serie di racconti, sempre più emozionanti, sempre più audaci, nel tono e nella risoluzione. Questa volta però aveva davvero deciso di mettere fine alla sua carriera, quindi non ha ritenuto necessario annunciarlo.

Fedele al suo stile e alla sua fama di riservatezza, Alice Munro affida il congedo dalla scrittura unicamente alla scrittura stessa, e la consegna ai lettori abituali, non a quelli dell’ultima ora, che compreranno il libro appena pubblicato da Einaudi con il titolo Uscirne vivi (pp 302, euro 19,50) pronti all’ammirazione incondizionata che sempre suscita uno scrittore premiato con il Nobel. Ma davanti a queste nuove storie lucide, aggressive, scarne, qualche volta criptiche, i lettori resteranno perplessi.

In una intervista radiofonica nel 1987, Alice Munro ha dichiarato: «Scrivo di dove sono nella vita», senza specificare se quel «dove» si riferisse al tempo o al luogo, e se «vita» significasse la sua, di vita, o la vita in generale. Ora si può dire che quel dove si riferiva al tempo, e quella vita era la sua. L’ormai anziana scrittrice affida ai suoi ultimi racconti quegli sprazzi di memoria così comuni nell’età tarda: ricordi lontani nel tempo, che ritornano con una chiarezza e una vivacità impossibili da ottenere prima, nell’età matura, quando la quotidianità e le necessità del vivere impediscono di analizzare troppo a fondo gli eventi del passato, quelli traumatici, ma anche quelli apparentemente innocui.

È probabile che chi legge Munro per la prima volta sorvoli, per esempio, sul colore di un vestito, verde, o addirittura «verde chartreuse»; mentre chi conosce bene i suoi racconti si trova a far visita a un’altra «vecchia» amica, la traduttrice storica di Munro, Susanna Basso, che in un saggio dal titolo «Il vestito del verde sbagliato», avava spiegato come mai il verde «lime» del testo originale fosse diventato «chartreuse». La ragione di questa scelta ha a che fare con un ricordo della traduttrice stessa, legato a sua madre, e lo stesso vale – probabilmente – per la preferenza che Munro dà al verde quando vuole vestire una donna di un colore simbolico.

Il lettore non tanto familiare con i racconti di Alice Munro potrebbe anche non far caso al colloquio di una bambina con il padre sui gradini di casa all’alba; o ritenere improbabile l’esito torrido di un incontro in treno tra una giovane moglie e madre delusa e uno studente; o meravigliarsi dell’insistenza dell’autrice nel descrivere quello che sembra sempre lo stesso paesaggio anteguerra, familiare, circoscritto all’Ontario, o addirittura ai campi e alle strade intorno a casa, o le mutazioni intervenute dopo la guerra nello stesso paesaggio; o scegliere di ambientare parecchi racconti sullo sfondo di un conflitto mondiale vissuto più o meno all’età di dieci anni, con una predilezione per le vicende di qualche drifter completamente spiazzato al ritorno dal fronte.

Ma queste e altre immagini, circostanze, descrizioni di luoghi – per non dire dello spuntare di una tappezzeria qua, di un prato fiorito là, del legno di una porta graffiato dalle unghie di un cane ansioso di uscire, di un certo paio di scarpe in un racconto o di un colletto di pizzo vero in un altro – sono particolari che ricorrono in altri racconti, a volte anche vecchissimi, dando luogo a una serie di déjà vu che commuovono, emozionano e rassicurano il lettore abituale. Quello nuovo, proverà invece sconcerto, stupore, incredulità, davanti a certe svolte improvvise nei racconti, ai risvolti drammatici di qualche storia fino a quel momento più simile a una divagazione.

Conclusioni imprevedibili, lampi di chiarezza improvvisa, andirivieni temporali ingannatori, fili conduttori illusori sono la caratteristica principale della struttura dei racconti di Alice Munro, fin dall’inizio. Ma questa volta gli indizi disseminati dall’autrice per portare chi legge al finale, che a ben guardare non è poi così sorprendente, sono scarsi, scarni, criptici, e soprattutto concepiti come se il «tesoro» del finale venisse riservato a cacciatori esperti, difficili da ingannare. Una specie di lascito ai lettori e ai critici fedeli, una decisione di chi alla fine della carriera, o della vita, pensa di potersi finalmente prendere la libertà di dire tutto quello che vuole, e soprattutto di dirlo in un certo modo, in un linguaggio il più esplicito possibile, anche se privo di intenti provocatori.

Ancora una volta, come già in una raccolta precedente, La vista da Castle Rock, Alice Munro avverte chi legge che «I quattro pezzi finali di questo libro non sono proprio storie. Formano un capitolo a sé, autobiografico nel sentire sebbene non, talvolta, interamente nei fatti. Credo che siano le prime e le ultime cose – e le più private – che ho da dire sulla mia vita.» Come se le altre storie della raccolta fossero invece storie inventate, e se l’autrice volesse finalmente mettere fine all’annosa discussione su quanto dei suoi scritti sia o meno autobiografico.

È vero, per esempio, che in uno di questi quattro pezzi, «L’occhio», Munro racconta di come la madre l’accompagnasse alla veglia funebre di un’adorata babysitter costringendola a vederne il cadavere. Ma al tempo stesso trova modo di insinuare il sospetto di una gelosia materna nei confronti della sfortunata ragazza vittima di un incidente, e anche di un sollievo materno nel non doverne più temere l’influenza negativa sulla figlia. Insinuazioni leggere come piume, in netto contrasto con la durezza del «realmente accaduto», dell’incidente mortale e della visita al cadavere.

Di certo autobiografico, nella sua durezza di particolari, è il pezzo che dà il titolo alla raccolta, «Uscirne vivi»: in poche pagine Munro scioglie il senso di colpa che la tormenta da una vita, per aver scelto la scrittura a scapito della cura, materna, ma soprattutto filiale. La madre le racconta una storia che Alice non può ricordare: mentre dormiva all’aperto nella carrozzina, in un bellissimo pomeriggio autunnale, nel vialetto di casa appare la figura minacciosa di Mrs Netterfield, una vicina «svitata» già colpevole di un assalto con l’accetta a un reduce del paese; la madre racconta di come l’abbia avvistata grazie a una specie di sesto senso, e di come abbia salvato la piccola dalla furia della donna nascondendosi in casa, e lo fa con una dovizia di particolari degni di un thriller. È la stessa madre che nello stesso pezzo, arrabbiata per l’atteggiamento ribelle e indisponente della piccola Alice, va a cercare il padre nel fienile perché impartisca una lezione con la cinghia alla bambina. In questo suo ultimo racconto Alice sembra finalmente conciliare le due figure materne così come le ricorda, quella gelosa e vendicativa, e quella eroica pronta a salvarla da una pazza con l’accetta. E conclude: «la persona con cui al tempo avrei voluto parlare era mia madre, ormai non più raggiungibile», perché morta lontano, e sepolta senza la presenza di una figlia troppo occupata da bambini e lavoro e da un marito «sdegnoso delle formalità». «Ma perché scaricare la colpa su di lui? La pensavo anch’io così. Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce le perdoneranno mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo.»