Il voto quasi plebiscitario riversatosi su Matteo Renzi alle primarie del Pd segna in maniera quasi emblematica la chiusura di un ciclo politico. Non può stupire il disperato e ciclico bisogno di rinnovamento finora mai inveratosi in una reale alternativa di modello sociale.

Ma non può essere altresì omesso che questa partecipata ansia di cambiamento parte dalla constatazione del fallimento storico di un gruppo dirigente che ha guidato i vari percorsi della sinistra nel Paese. Renzi volta pagina in fretta con battute fulminanti, «il futuro del Pd è sulla frontiera non al museo delle cere», e costruisce una narrazione sul pelo dell’acqua tanto efficace quanto imprevedibile. Si è sbriciolata dunque, nel ventennio berlusconiano, la certezza infondata di poter governare l’Italia acquisendo pezzi del ceto politico avversario e conquistando “i santuari” del suo sistema di potere.

Questa idea esasperata della prevalenza della tattica per conquistare il potere, in danno dell’ambizione alla trasformazione culturale e sociale del Paese, si è servita persino di un anacronistico storicismo, l’imperativo di responsabilità, che ha portato negli ultimi anni al governo delle larghe intese con un corredo di austerità che ha stremato socialmente il Paese e sollecitato gli spiriti animali dei vari populismi. Di colpo si sono ingiallite le fotografie di esperienze passate. Con la sconfitta elettorale si è chiuso il capitolo di una possibile evoluzione di tipo socialdemocratico nel Pd. La vittoria di Renzi impone di aprire anche a sinistra una stagione nuova. Ci è parso questo, peraltro, il senso del primo commento di Vendola. L’eclettismo comunicativo di Renzi deve essere sfidato su di un terreno innovativo e di merito.

Il primo nodo è questo governo. Il collante che tiene insieme Letta con Alfano, Formigoni e Giovanardi è la prosecuzione della politica economica di Monti con vecchie pratiche di gestione del potere e di relazioni internazionali e militari che hanno riferimenti storici nella prima Repubblica. Come si concilia tutto ciò con il cosiddetto nuovo corso del Pd? Non si può fantasticare su di una prospettiva immediata di risoluzione dei problemi strutturali del Paese e contemporaneamente sostenere mestamente questa coalizione. Ed ancora: quale nuova politica industriale? Quale piano per il lavoro ai giovani? Che peso ha il mutamento del paradigma produttivo in senso ambientale? Come si fa a far fronte alla catastrofe della disoccupazione giovanile senza introdurre forme di reddito minimo garantito o una lotta serrata alle mille forme di precarietà? Quali investimenti per il sapere, la formazione pubblica e la ricerca? Da dove si ricavano le risorse senza una patrimoniale che restituisca almeno parzialmente quello che è stato sottratto dalla rendita al lavoro? Come tutelare i “beni comuni” dal saccheggio della speculazione e del profitto? Sono i temi su cui si sono sviluppati nel nostro Paese movimenti e conflitti sociali e da cui è possibile intravedere i protagonisti di una ricostruzione di una sinistra di governo con un profilo autonomo. Il nuovo centro sinistra può essere segnato da questa salutare “sfida competitiva”.

L’orizzonte su cui muove i primi passi Renzi sembra accantonare il nucleo forte dell’esperienza storica della sinistra del ‘900, l’uguaglianza. Per la sinistra futura non si può che provare a ricostruire in forme inedite il nesso (sempre scisso nel secolo scorso) tra uguaglianza e libertà.

Con lo stesso spirito innovativo si può provare, in Europa, a fuoriuscire dalla tenaglia di una mera adesione al Pse così come oggi si presenta (dalle larghe intese in Germania alla deludente esperienza di governo in Francia) o di un confinamento in un recinto minoritario che rischia di rendere ininfluenti esperienza politiche interessanti e di rendere irrilevanti le dinamiche dei movimenti. Per rompere la cappa opprimente della subalternità alle tecnocrazie e alle politiche di austerità che hanno portato l’Europa ad un declino serve investire in democrazia e in una nuova ed alternativa politica economica. E serve uno sguardo sull’Europa che sposti l’attenzione dall’asse carolingio al mediterraneo, ai suoi drammi e alle sue potenzialità. E serve soprattutto chi si batte per un’unità delle forze di sinistra in Europa in grado di rinnovare profondamente, teoricamente ed organizzativamente, il Pse. Questo può essere il lavoro di Sel ed il tema del suo Congresso. Tornare ad essere il lievito di una sinistra nuova che non si lascia sedurre dall’adesione acritica al cosiddetto nuovo corso del Pd ne tantomeno si rinchiude in un cantuccio ripercorrendo vie asfittiche e meramente consolatorie.

Uscire dalla trincea del partito, uscire, per dirla con Vendola, dal chiuso del palazzo ovvero da una sorta di Aventino al contrario, cedere sovranità, avviare processi aperti, costituenti, definite un nuovo campo e una nuova soggettività, uno spazio aperto e contendibile. Ma occorre fare tutto molto in fretta. Svegliarsi dal torpore e dall’afasia, riprendere un profilo netto di opposizione al governo Letta e riaprire i canali di rapporto con la società ed i movimenti. Il tempo sta scadendo.