«La multinazionale Chevron ha provocato in Ecuador una contaminazione 30 volte peggiore di quella prodotta dalla British petroleum nel Golfo del Messico tra aprile e settembre 2010». Così dice al manifesto Leonardo Arizaga, viceministro degli Esteri ecuadoriano. Arizaga è in Italia per un giro di conferenze che hanno al centro la vertenza ambientale tra le popolazioni indigene dell’Amazzonia ecuadoriana e la multinazionale Usa. Ricapitola le tappe della vicenda. Dal ’72 al ’92, durante la realizzazione di attività estrattive petrolifere nella provincia di Sucumbios e Orellana, Chevron-Texaco versa 68.140.000 metri cubi di rifiuti tossici.

Nel febbraio del 2011, dopo 9 anni di litigi, i tribunali ecuadoriani legiferano a favore delle popolazioni colpite dall’inquinamento, che hanno inizialmente sollevato la questione in un tribunale di New York. La multinazionale (la seconda più grande degli Stati uniti) deve pagare 19 mila milioni di dollari. Una cifra in seguito ridotta a 9.500 milioni di dollari da una successiva sentenza della Corte nazionale di giustizia dell’Ecuador. «Ma adesso – spiega il viceministro – è in pieno corso un arbitraggio alla Corte permanente dell’Aja».

La multinazionale ha iniziato la battaglia contro il governo dell’Ecuador nel 2009, accusando la petrolifera statale Petroecuador di essere l’unica responsabile dei danni. E il 4 marzo, la giudice federale Lewis Kaplan ha accolto la tesi degli avvocati di Chevron, secondo i quali il processo in Ecuador sarebbe stato viziato. «Esistono però numerosi testimoni – dice ancora Arizaga – che hanno visto e subito cose diverse. La multinazionale ha usato tecnologie estrattive obsolete e a basso costo, incurante della vita delle persone e dell’ambiente. Dopo oltre vent’anni, nella zona del lago Agrio l’inquinamento è ben visibile e i suoi effetti devastanti. I periti statunitensi, in arrivo nel paese, potranno constatarlo di persona. Le multinazionali – aggiunge – sono bene accette perché siamo un paese in via di sviluppo, ma a condizione che rispettino le leggi dello stato».

Uno stato che ha scommesso sulla «revolucion ciudadana», che ha rinegoziato il debito internazionale per dedicare i soldi e le risorse pubbliche «a ridurre ulteriormente la povertà, all’istruzione e allo sviluppo industriale. Oggi – aggiunge il viceministro – le popolazioni chiedono che determinati progetti vengono attuati nel posto dove vivono, perché sanno che almeno il 30% del guadagno sarà investito per il proprio benessere».

Non tutto, però, quadra, come nella vicenda del Parco Yasuni, una grande area incontaminata che il governo ha deciso di trivellare. E ora diversi gruppi di attivisti hanno raccolto le firme per un referendum che fermi le macchine. Il viceministro ricorda i tentativi fatti per anni da Correa, che aveva proposto alla comunità internazionale di compensare al 50% il valore del petrolio lasciato sotto il parco, ma senza grandi esiti. «E per questo si è deciso, pur con tutte le cautele, di sfruttare l’1 per 1000 dello Yasuni, onsapevoli che comunque cercare il petrolio ha un costo ambientale».

I risultati ottenuti dal governo progressista di Correa «che dopo 7 anni ha un gradimento in crescita», indicano però – secondo il viceministro – che si può assumere il rischio per aumentare il benessere della popolazione: perché l’Ecuador ha sì «la più bassa percentuale di disoccupati dell’America latina e il più basso livello di inflazione, ma una persona su 4 soffre ancora la fame e il livello delle esportazioni è rimasto quello di quarant’anni fa: ancora dipendente dal petrolio bruto e dalla vendita delle materie prime. E per questo si sta costruendo una raffineria con l’apporto di Cina e Venezuela».

Per cambiare le cose, occorre «lavorare allo sviluppo di nuove relazioni continentali», cercando di schivare le trappole del neoliberismo e favorendo il dinamismo dei paesi progressisti. E qui il viceministro loda l’iniziativa della Unasur nella commissione di pace in Venezuela. Importante, però, è anche potenziare le relazioni con i partner tradizionali: gli Usa (dove vive un milione di ecuadoriani) e la Ue, che ne ospita altrettanti.