Luca Ronconi torna al grande teatro classico, e porta il suo pubblico alla corte della Celestina (al Piccolo Teatro sala Strehler fino al primo marzo). Una «corte dei miracoli» certo, abituata a muoversi «laggiù, vicino alle concerie, in riva al fiume», come la descrisse, (e pubblicò nel 1499) lo spagnolo Fernando de Rojas. Da noi la Celestina arriva ora in palcoscenico nella versione che qualche anno fa ne ha tratto (per Robert Lepage e Nuria Espert) il canadese Michel Garneau. Una versione certo più vicina alla nostra sensibilità, che rispetta però in pieno le caratteristiche del complesso, inarginabile, testo originario. Un capolavoro che fonda una più nuova letteratura e una più ampia teatralità. E che partendo dall’amore «maledetto» tra due giovani, Calisto e Melibea (che con i loro nomi davano il titolo alla fluviale «tragicommedia» originaria) dispone un’intera geografia di caratteri sociali, famigliari, di servitù e d’arme, di corruzione e di magia, di valori in caduta e di sessualità in espansione ed erezione, al centro della quale sta proprio la figura femminile del titolo. La Celestina, regina e domina di quell’anfratto fluviale, che si immagina piuttosto contaminato dalla concia delle pelli, è infatti maga e mercantessa, ruffiana e chirurga (sua specialità la ricucitura di verginità violate), imbrogliona e corruttrice. Tutto per danaro, ché nulla può invece opporre all’avanzare dell’età, e in maniera quasi struggente pare appagarsi nelle ruffianerie per gli altri di quanto non può più vivere in proprio.

Eppure, attorno e grazie a Celestina, la storia principale narrata è quella dell’amore, irrefrenabile e visibilmente incontenibile per lui, crudelmente represso da lei, tra Calisto e Melibea appunto. Assistiti e ammansiti, obbediti e controllati e imbrogliati, da uno staff di servitori che si alternano per lui, e da antiquati genitori e serva partecipe per lei. Insomma una folla di personaggi, che si lascia però irretire e condizionare dai numeri a sensazione della protagonista, che nello stretto ambito domestico incita e organizza la prostituzione senza tempi morti per la figlia e la nipote, due tipologie puttanesche davvero esemplari, tutte cuore e corpo, cui due giovani attrici alla prima esperienza con Ronconi – Licia Lanera e Lucia Lavia – danno l’una nervosa aggressività e saggezza temperamentale, l’altra iconica bellezza.

Ma la padrona della matassa, non solo amorosa ma in senso lato politica, è ovviamente la Celestina, cui presta il corpo e una deformata smorfia facciale Maria Paiato. Con grinta e presenza di fuoco, l’attrice a tratti evoca nei lineamenti e nei gesti una scomparsa signora della scena, Laura Betti. Il ricordo prende corpo, e senso per lo spettatore antico degli spettacoli del regista, perché proprio la Betti fu la maestosa ruffiana della prima versione del Candelaio ronconiano di Giordano Bruno. Mentre della seconda versione di questo testo erudito e sulfureo (una lingua che resta ancora un prodigio di fascinazione), quello odierno evoca la geometria orizzontale della scena, un artificio mirabile di porte e di botole in continuo movimento, che aprono e chiudono instancabili gli spazi, gli ambienti, i sentimenti, gli artifici, i moralismi, le pulsioni, gli accoppiamenti e gli assassinii. Il meccanismo scenografico costruito da Marco Rossi su un grande piano inclinato ai piedi delle pareti della scatola scenica (macchiate qui dal tempo o dalla «colpa»), è un vero labirinto semovente di percorsi interiori. Mentre i bei costumi di Gianluca Sbicca mettono fuori dal tempo e dalle contingenze quei corpi, tanto frementi quanto repressi da contrastanti, eppure affini, necessità. E vengono alla memoria altri fantasmi ronconiani, come le creature schizoidi e crudeli dei Lunatici elisabettiani degli esordi (e commuoveva al Piccolo la presenza in platea di Sergio Fantoni che ne era stato spietato maestro di cerimonie). La stessa cupidigia di libidine, la stessa sulfurea sapienza si agitano a tratti dalle parti di questa Celestina. E colpisce perché scopre, dopo mezzo secolo circa, la straordinaria coerenza visionaria ed emozionale di un artista come Ronconi, la lucidità di un universo lontano quanto coinvolgente per lo spettatore, ma di cui egli aveva evidentemente già consapevolezza e progetto.

Dotazioni che possiedono qui i corpi degli sfortunati personaggi della storia, Calisto e Melibea, quasi un Romeo e una Giulietta dal destino segnato come Ero e Leandro o le altre infinite coppie infelici raccontate dal mito. A lui Paolo Pierobon dà una carica di erotica pretesa che si fa quasi hybris, mentre argomenta la sua foia incontrollata come fosse la scienza di mondi nuovi che appena si andavano scoprendo. Bravo quanto Lucrezia Guidone che scopre nella sua doppia e tripla Melibea, scissa tra rifiuto e desiderio, la capacità di calcolo delle carte geografiche dell’abbandono al piacere. Attorno a lui la servitù sottomessa eppur razionaleggiante di Fausto Russo Alesi e Fabrizio Falco, che come calchi del padrone esplicitano altre pose di un infinito catalogo della seduzione, seppur applicato alla venale facilità delle familiari di Celestina, e poi ancora altre due maschere servili (tra cui il Sosia di Riccardo Bini); lei divisa tra la complicità voyeur dell’ancella e le litanie di vecchio moralismo dei genitori in eterna penitenza (Bruna Rossi e Giovanni Crippa). Fino a una incongrua quanto comica epifania finale di un centurione di ventura (Pierluigi Corallo). Finale tragico per i due amanti come si è detto, quasi a coprirne e punirne l’ardimento. E molti pensieri da rimuginare per il pubblico, che dopo gli applausi calorosi deve rimettere in ordine, e personalizzare, cotanto mosaico di pulsioni, sfilate nella bella traduzione di Davide Verga.