Olio sull’asfalto e fil di ferro teso per bloccare le strade alle moto. E’ l’ultima trovata dei gruppi oltranzisti che animano le proteste in Venezuela, e che hanno provocato due morti e due feriti gravi. Nello stato Lara, è invece stato ucciso un manifestante chavista, fratello di un deputato del Partito socialista unito del Venezuela (Psuv).

Il precedente bilancio fornito dal governo era di 8 vittime, 137 feriti e 24 persone arrestate. La maggior parte dei fermati non si trova dietro le sbarre, ma è sottoposta a misure di sorveglianza, come attesta il quotidiano di opposizione El Universal.
La lista dei cadaveri rischia però di allungarsi col perdurare delle proteste violente che chiedono «la salida» (l’uscita) dal governo del presidente Nicolas Maduro. Una campagna lanciata da Leopoldo Lopez, Maria Corina Machado e Antonio Ledezma. Tre dirigenti della Mesa de la unidad democratica (Mud), insofferenti della via democratica che consentirebbe loro di raccogliere le firme e indire un referendum revocatorio alla metà del mandato presidenziale. Lopez è un politico di destra (Voluntad popular) inabilitato per malversazione, condannato e poi amnistiato per attività cospirative durante il golpe contro Chavez del 2002, quand’era sindaco di Chacao. Attualmente è in carcere con l’accusa di aver istigato le violenze di piazza del 12 febbraio, come già aveva fatto per quelle post-elettorali dell’aprile scorso, che portarono alla morte di 11 militanti chavisti.

Allora aveva a fianco il sodale di sempre, il due volte candidato della Mud alle presidenziali, Henrique Capriles Radonski, governatore del ricco stato Miranda: che però ora si sta smarcando dalla via violenta, insieme a parte dell’opposizione.
L’intera Mud ha comunque indetto la manifestazione di ieri per chiedere la liberazione di Lopez: che si è svolta senza incidenti, fino al momento per noi di andare in stampa.

La Defensoria del pueblo

Intanto, infuria la polemica politica e mediatica tra chi vuol mettere all’angolo il governo socialista e chi ne difende l’operato. Al centro, le responsabilità sui morti di piazza e le denunce di torture presentate da uno studente di opposizione, che ha sostenuto – non davanti al suo avvocato, ma in seconda battuta – di essere stato violentato con un fucile. Il Venezuela di oggi è molto diverso da quello che, nella IV Repubblica, «risolveva» i problemi della delinquenza con il «madrugonazo», i rastrellamenti all’alba nei quartieri popolari compiuti dagli squadroni di polizia (gli stessi coinvolti nei principali fatti criminali del paese).

La costituzione varata nel ’99 contempla un lungo elenco di diritti (a partire da quelli economici) e un istituto determinante, la Defensoria del pueblo, ora diretto da Gabriela Ramirez, garantista stimata a livello internazionale. Neanche la polizia politica è più quella della IV Repubblica. Allora, nelle democrazie dell’alternanza tra centrodestra e centrosinistra, molto apprezzate da Washington e dall’Europa, vi erano centri di detenzione clandestini, in cui torturavano gli uomini del piano Condor e della Cia come l’anticastrista Luis Posada Carriles. Prima ancora che nelle dittature cilena e argentina degli anni ’70, è in Venezuela che vi sono state le prime scomparse di oppositori politici. La Commissione contro l’oblio ha riesumato corpi e ritrovato luoghi in base alle testimonianze dei sopravvissuti. Alcuni funzionari di allora sono sotto inchiesta.

Scuola di pacifismo

Il governo bolivariano ha mandato a scuola di pacifismo e di diritti umani forze dell’ordine e corpi militari, ha creato una polizia nazionale che non esisteva in un paese federale composto da 25 stati. Nei feudi della destra, le polizie rispondono però soprattutto alle autorità locali. E non tutto è stato bonificato, come emerge dalle vicende di piazza di questi giorni. Chi ha sparato – con la stessa pistola ma in luoghi diversi – al noto leader dei collettivi di quartiere «Juancho» Montoya e a due ragazzi di destra? Maduro ha affermato che alcuni funzionari della polizia politica, il Sebin, «non hanno ubbidito agli ordini» e che sono sotto inchiesta. E qualche generale a riposo è sotto sorveglianza.

Un uomo si è scagliato con la macchina contro la rappresentanza consolare nell’isola di Aruba (a nord del Venezuela), dipendente dai Paesi bassi, e Maduro ha convocato l’ambasciatore olandese. Il governatore dello stato Carabobo, Francisco Ameliach, ha detto di aver scoperto esplosivi a 150 metri dalla casa della moglie e del figlio. E il proiettile che ha ucciso la giovane modella nella zona risulta provenire dalle fila di opposizione con cui la ragazza manifestava.

Esperti di guerre mediatiche

«Esperti di guerra psicologica e mediatica sono arrivati nel paese per orchestrare un piano violento: secondo un copione dettato da John Kerry», ha detto la giovane ministra per la comunicazione Delcy Rodriguez. E Maduro ha revocato il permesso a due giornaliste della Cnn spagnola, apertamente schierate con l’opposizione fin dal golpe del 2002. Poi ha invitato Kerry, che ha protestato per «l’inaccettabile violenza», a istaurare un «dialogo all’altezza» e ha rispedito al mittente le «ingerenze» della Ue e del presidente colombiano Manuel Santos.

Maduro ha incontrato i dirigenti di opposizione subito dopo l’ampia vittoria alle comunali dell’8 dicembre (il 76% dei municipi). La sinistra più marxista del chavismo, lo invita però a non accettare polpette avvelenate dalla Mud, che con una lingua parla di pacifismo e con l’altra cospira.
Su aporrea.org, lo storico Vladimir Acosta, docente all’Università centrale, offre un’altra prospettiva. Le chiamate ecumeniche non servono, dice, essere giovani è una condizione non un merito.
Gli studenti di destra non sono «manipolati», ma militanti che rispondono a precisi interessi di classe e seguono i loro dirigenti, come fanno i ragazzi di sinistra. «Il vecchio armamentario della destra fascista e machista – afferma – si rinnova e si tramanda attraverso questi giovani che vi si riconoscono». Quindi, meglio assumersi la responsabilità del conflitto e metter fine «all’impunità di chi commette gravi reati». Acosta dissente dalla dinamica messa in moto da Chavez dopo il golpe del 2002, quando tornò al governo con il crocefisso in una mano e la costituzione nell’altra. E così – ricorda – «nel 2007, mentre la destra in piazza ci sparava pallottole, noi rispondevamo gettando rose. E stiamo continuando sulla stessa strada».

Questo, però, non ha impedito allora ai grandi media di tuonare contro il «dittatore» Chavez (riconfermato dalle urne fino a poco prima di morire, il 5 marzo scorso). Così come gli atteggiamenti concilianti di Maduro non stanno impedendo oggi i titoloni contro il governo insopportabile di un ex operaio del metro.

Lo scopo delle destre

La destra estrema e il vecchio consociativismo lanciano un messaggio convergente: se non si può spazzare via questo «socialismo bolivariano», che almeno lo si zavorri, in modo da rendere inerziali le spinte più avanzate verso l’autogestione operaia e lo stato comunale. «Non ci siederemo mai al tavolo con l’opposizione per negoziare i diritti del popolo venezuelano, potremmo farlo solo per lavorare insieme per il bene delle comunità, per esempio dando forza al Piano di pace e pacificazione contro il crimine», ha detto il ministro degli Esteri, Elias Jaua. Intanto, la destra ha salutato con favore la nuova riforma del sistema cambiario varata in questi giorni dal governo: «Consentirà finalmente di pagare il grande debito che l’Esecutivo ha con le imprese», ha scritto El Universal.
Sostiene invece Manuel Sutherland, esponente della Asociacion Latinoamericana de Economia Politica Marxista (Alem): a partire dal controllo dei cambi, istituito nel 2003, l’imprenditoria privata «ha importato 317.000 milioni di dollari, oltre tre Piani Marshall, e il risultato è la tremenda scarsità dei prodotti e la loro pessima qualità: perché la tendenza naturale del capitale è quella di accumulare capitale e lasciare il paese in miseria».

La guerra economica

Il Venezuela ha scontato da allora una fuga di capitali per circa 150.000 milioni di dollari, più o meno pari al 43% del Pil dell’anno 2010. «Questo favorisce la svalutazione della moneta e un rafforzamento delle quotizzazioni speculative del cosiddetto dollaro parallelo, che si vende 15 volte più caro del dollaro ufficiale».
Un dollaro utilizzato da tutti i commercianti per fissare i prezzi dei prodotti, eccezion fatta per i pochi regolati. Coloro che ricevono dollari ufficiali non hanno nessun incentivo a portare merci nel paese, «preferiscono deviare gli acquisti e appropriarsi illegalmente dei dollari che in seguito potranno vendere con un guadagno del 1500% esentasse nel mercato parallelo». Questo provoca penuria, impennata dei prezzi, caduta della qualità dei beni e dei servizi e tutti i problemi della cosiddetta «guerra economica» Anche l’economista Jacques Sapir, la cui analisi pubblicheremo sul Diplo di marzo (www.medelu.org), individua il cuore del problema nel divario – crescente dal 2010 e diventato esplosivo dall’autunno del 2012 – fra il livello del tasso di cambio ufficiale (o nominale) e il tasso di cambio reale. Uno scarto che ha origini strutturali nella politica del credito «imposta dalla crisi e necessaria allo sviluppo del paese». E ne ha altre congiunturali legate soprattutto al finanziamento dell’impresa petrolifera di stato Pdvsa da parte della Banca centrale: necessario perché “Pdvsa doveva vendere i proventi al tasso ufficiale, ma si vedeva costretta a pagare fornitori che le fatturavano servizi e prodotti sulla base del tasso di cambio reale”.

I proventi del petrolio, incamerati dallo stato mediante Pdvsa, hanno consentito una consistente ridistribuzione delle risorse a favore degli strati popolari.
«Non permetteremo al fascismo, che ha mostrato i suoi denti da latte nel golpe del 2002 e ora ha grosse zanne, di riportare la miseria e l’esclusione», ha detto ieri la ministra degli affari Penitenziari, Iris Varela, durante la grande marcia delle donne chaviste a favore del governo che si è svolta nella capitale.