Tre civili morti e 66 feriti, 54 veicoli danneggiati, 118 fermati, 17 funzionari in ospedale. Questo il bilancio delle violenze seguite alle manifestazioni studentesche dell’opposizione (il 12 febbraio) fornito dal governo venezuelano. A questo, il presidente Nicolas Maduro ha aggiunto un altro particolare: a uccidere due manifestanti (uno chavista e un altro di opposizione) sarebbe stata «la stessa pistola». Una delle vittime, Juancho Montoya, era un noto esponente dei collettivi di quartiere del 23 Enero, un leader dei movimenti studenteschi degli anni ’70.
«Lo conoscevo da quando aveva 14 anni – ha raccontato il presidente – l’ultima volta che l’ho visto stava partecipando a un incontro del Movimiento por la Paz y la Vida durante il quale ha consegnato alcune vecchie armi che utilizzavano negli anni ’80 per difendersi dalla delinquenza e dalle bande criminali». Un quarto d’ora dopo la morte di Montoya – ha detto ancora il presidente – è stato ucciso il giovane Bassil Alejandro Da Costa «un lavoratore, un carpentiere, non uno studente dell’università Alejandro Humboldt come si era creduto. Sembra fosse un militante di certi gruppi radicali, ma aveva diritto alla vita». Nella notte – ha aggiunto Maduro – «ho ricevuto la notizia di un’altra morte a Chacao: un giovane che si trovava con Da Costa, ucciso anch’egli da individui a bordo di moto di grossa cilindrata che stiamo identificando».
Una dinamica destabilizzante, quindi. A comprova, Maduro ha mostrato video e registrazioni degli scontri e delle devastazioni. A dirigere le violenze, compare uno dei leader dell’opposizione, Leopoldo Lopez. Insieme a Maria Corina Machado e al sindaco della Gran Caracas, Antonio Ledezma, Lopez ha istigato l’ala più dura delle destre venezuelane a scendere in piazza per dar forza alla campagna contro il governo: per chiedere «la salida» (la partenza) di Maduro. Con ogni mezzo. E al grido di: «Fuori i cubani dal paese».
L’ossessione contro i medici cubani che lavorano nei quartieri popolari era già esplosa nel corso delle violenze post-elettorali seguite alla vittoria di Maduro su Henrique Capriles Radonski, il 14 aprile. Questa volta, però, il cartello di opposizione – la Mesa de la unidad democratica (Mud) – non è più coesa sulla via golpista al potere. Diversi sindaci, governatori e leader dei due partiti che hanno gestito l’alternanza tra centrodestra e centrosinistra durante gli anni delle democrazie nate dal Patto di Puntofijo (Copei e Ad), hanno preso le distanze dall’ala dura. Persino Capriles – grande ispiratore delle violenze postelettorali – si è smarcato dal suo antico sodale Lopez, con cui aveva imperversato durante il colpo di stato contro l’allora presidente Hugo Chávez, nel 2002. A continuare con gli incendi di cassonetti, i blocchi stradali, le molotov e le aggressioni, restano quindi solo gli oltranzisti.
«Il popolo venezuelano sta mostrando una volta di più il livello della propria maturità politica. Questa sembra sempre più una partita giocata dalla destra per regolare i conti al suo interno», dice al telefono Arnaldo Rojas, studente universitario e responsabile economico di Anros, l’Associazione delle reti e delle organizzazioni sociali. Una Ong indipendente dal governo e dai partiti che si occupa di formazione e progetti sociali e che ha il suo ufficio in Parque Carabobo, dov’è stato ucciso il militante chavista: «Abbiamo sentito lo sparo che ha ucciso Montoya – racconta Rojas – c’erano moto di grossa cilindrata e incappucciati che attaccavano la polizia e cercavano di raggiungere la sede del Ministerio publico, poco distante». E qual è stata la reazione della polizia? Non potrebbe essere stato un proiettile vagante? Secondo i grandi media, la polizia ha sparato sugli studenti di opposizione: «Assolutamente no – dice Rojas – si vedeva che avevano ordini precisi di non intervenire, solo dopo ripetuti assalti hanno usato il gas lacrimogeno. In tutti questi anni, il governo non ha mai sparato sui manifestanti. E anche i collettivi del 23 Enero hanno scelto di non reagire con le armi. Di non vendicarsi. Ho visto foto sui giornali palesemente false. Prima di queste aggressioni, gli studenti dei due campi stavano sfilando pacificamente».
I giovani di opposizione hanno manifestato contro l’insicurezza e le difficoltà economiche: problemi reali. «Certo, ma bisogna risolverli senza farsi strumentalizzare da chi se ne serve per destabilizzare il paese. Noi lavoriamo nelle carceri, nelle campagne, nei quartieri, constatiamo da vicino che i prodotti che partono non arrivano ai cittadini perché le grandi catene di distribuzione, in mano ai privati, non li consegnano e li dirottano altrove. Per questo, il governo ha deciso di comprare un gran numero di camion e mezzi di trasporto e di provvedere a livello statale. Chi fa informazione dovrebbe dirle queste cose».
E mentre l’opposizione annuncia una nuova marcia fino al Ministerio publico per martedì prossimo, il governo ha già inviato i suoi ministri in tutte le sedi universitarie per raccogliere le proposte degli studenti: da includere nel percorso di conciliazione, inaugurato da Maduro nei confronti dell’opposizione all’indomani della vittoria alle municipali dell’8 dicembre. Diversi sindaci Mud stanno moltiplicando gli appelli alla calma e al rifiuto delle violenze. Intanto, è stato confermato l’ordine di cattura per Leopoldo Lopez che, secondo un twit del presidente dell’Assemblea, Diosdado Cabello, starebbe per andarsene in Colombia: da dove – sostiene il governo – provengono mercenari e paracos decisi a destabilizzare. Per via di una precedente condanna, Lopez non gode di immunità parlamentare: diversamente da Machado di cui probabilmente si occuperà l’assemblea. Oggi a partire dalle 12, il popolo chavista torna a marciare a Caracas. Per la pace.