«A che punto è la città?/La città in un angolo singhiozza./Improvvisamente da via Saragozza/le autoblindo entrano a Bologna./C’è un ragazzo sul marmo, giustiziato». Così Roberto Roversi ne Il Libro Paradiso. L’anno era il 1977, il giorno era l’11 marzo, il corpo quello di uno studente, Francesco Lo Russo, ucciso dalle forze dell’ordine nel corso di una manifestazione. E il senso dell’evento (a una lettura immediata come quella di Federico Stame) venne individuato nel tentativo di ricomprensione da parte dello stato dell’intera società civile bolognese all’interno del sistema politico-istituzionale nazionale, secondo la logica di una tensione tra governo urbano comunista e potere centrale di segno opposto alimentatasi nel corso dell’intero dopoguerra. Ma i fatti del 1977, dal marzo che registrò la frattura tra città e università fino al Convegno Internazionale sulla Repressione in settembre, significarono molte altre cose, toccando in profondità, senza che la stessa cittadinanza ne fosse davvero consapevole, la natura di Bologna, la sua memoria e perciò la sua coscienza: al punto che l’intera transizione post-comunista della città, quella ancora in atto, riesce a svolgersi e a (auto)legittimarsi soltanto sulla base del sistematico, strutturale silenzio istituzionale su di essi. Proprio quel silenzio che ha garantito e garantisce la sopravvivenza della politica (della polis) al prezzo della progressiva divaricazione tra civitas e urbs, tra le possibilità di messa in comune della capacità cittadina di manipolazione simbolica e la crescita della città nella forma di semplice manufatto urbano, di complesso plurifunzionale di costruzioni, secondo la concezione andante di organismo urbano: quella che, codificata nell’Encyclopédie, domina da più di due secoli i nostri dizionari, e perciò la nostra mente. Lo stesso silenzio rispetto al quale la mancata elaborazione del lutto per il crollo del muro di Berlino, alla fine degli anni Ottanta, si porrà, nel nostro Paese, come replica allargata e ancora più fragorosa. Come ha scritto in proposito, icasticamente, Mauro Boarelli: «Anche quella che veniva esibita con orgoglio come la capitale del comunismo europeo non ha trovato alcuno spazio pubblico per confrontarsi con la propria storia».

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Nel dopoguerra e ancora fino all’inizio della seconda metà degli Settanta, al tempo del «buongoverno» inaugurato da Giuseppe Dozza, i funzionari della polis ponevano al contrario la massima cura nel tenere insieme l’urbs e la civitas, lo sviluppo e la manutenzione della città materiale con quello della coscienza civica intesa come riconoscimento di un unico, comune sentire, oltre che di comuni concreti bisogni. Erano i tempi della «democrazia sociale» bolognese, al cui interno la riorganizzazione dei servizi era concepita, per riprendere una distinzione di Nadia Urbinati, non come un semplice atto dovuto ma come una proattiva «funzione della cittadinanza democratica», in grado cioè di favorire la complessiva emancipazione sociale di tutti i soggetti, anche quelli che in apparenza del singolo servizio non usufruivano: si pensi soltanto all’invenzione della scuola a tempo pieno, in grado di riconfigurare il complesso delle relazioni tra i tempi del lavoro, dell’apprendimento e della cura famigliare, e perciò di trasformare la struttura temporale del meccanismo dell’intera città; oppure si pensi, prima ancora, alla riflessione sul decentramento e alla nascita dei quartieri, volta a consolidare la partecipazione dei bolognesi alla vita in comune.

Se a partire dalla fine degli anni Ottanta l’autocritica manca, la riconversione in senso privatistico della gestione pubblica è però tempestiva, quasi che proprio questa fosse l’implicita ragione del nuovo corso del governo locale. Giusto al 1989 risale il progetto di privatizzare le farmacie comunali volute da Dozza nel 1949, mandato poi ad effetto un decennio dopo dal sindaco Walter Vitali in seguito a un referendum consultivo che i dirigenti del Pds invitarono a disertare: con pieno successo, anche se in assoluto dispregio degli strumenti di partecipazione diretta previsti dallo Statuto comunale. In tale episodio si è voluto vedere l’avvio del processo di «trasmutazione di tutti i valori» dell’amministrazione pubblica di sinistra culminata nel progetto di riforma nazionale dei servizi locali promosso durante il secondo governo Prodi. Ma nell’immediato le conseguenze di tale decisione sull’ethos civico bolognese furono evidentemente demolitorie: ridotto in tal modo alla passiva esibizione dei caratteri culturali e identitari petroniani (non escluso lo stesso buon governo definitivamente ridotto a mito) esso diverrà il terminale sempre meno ricettivo di pratiche e discorsi sempre più discosti rispetto al comune sentire.

Al riguardo la parabola è esemplare, e tutta orientata nel senso della progressiva crisi della coincidenza tra pratica politica e sentimento civico: parte dal sindaco Giorgio Guazzaloca (1999-2004), il primo sindaco di centro-destra, alfiere di una stereotipata «bolognesità» e termina con la gestione commissariale dell’ex ministra Annamaria Cancellieri (2010-11), vale a dire con l’azzeramento di ogni possibile rappresentanza politica locale. In mezzo due figure, molto differenti tra loro, vissute però dalla cittadinanza, per ragioni diverse, come due autentici infortuni: il sindaco Sergio Cofferati (2004-9), percepito alla fine dai bolognesi in termini di quasi assoluta estraneità, e il sindaco Flavio Delbono (2009-10) il cui brevissimo governo terminò scandalosamente nelle aule giudiziarie. Dato in tal modo fondo a ogni plausibile mossa e gettata la spugna, altro non restò alla fine al ceto politico che affidarsi, in contraddizione con tutta la storia amministrativa precedente, all’emissario del governo centrale, significativamente invitato dai due principali antagonisti partiti, alla fine del suo mandato, a presentarsi alle elezioni comunali come candidato di spicco nelle proprie liste.

Le ragioni di tale cortocircuito politico-amministrativo appartengono però non alla cronaca ma alla storia, alla matrice della coscienza politica, all’estesa mente (mind) urbana costituita dalla collettività nel suo rapporto con la materiale struttura cittadina (brain) che allo stesso tempo la produce e ne è il prodotto. E proprio l’ignoranza della natura di tale matrice è oggi all’origine dell’incapacità della politica locale ad assolvere il proprio compito: a Bologna più manifestamente che altrove. Già un secolo fa avvertiva Adolf Loos che non si ha idea della quantità di veleno che abili pubblicazioni spargono ogni giorno sull’idea di città, al punto da impedire ogni autentica comprensione del fatto urbano. Tale veleno consiste in sostanza nella trasformazione della realtà urbana in semplice aggregato edilizio, appunto secondo la canonica definizione illuministica all’inizio richiamata, formulata da Diderot in persona. Così, riportata all’organismo cittadino, la celebre affermazione della Thatcher per cui «non esiste la società, esistono solo gli individui, di sesso maschile e femminile» enuncia non soltanto la fine di ogni idea di civitas, di collettività civile, ma anche di ogni relazione tra questa e l’urbs, secondo un processo di riduzione dell’idea di città che culmina oggi nel concetto di smart city: che significa non città «intelligente», come si dice, ma piuttosto «furbescamente alla moda», da gestire secondo programmi elettronici volti alla trasformazione in senso aziendale della città stessa.

Bologna però non è una città intelligente, è molto di più: è una città per natura cognitiva, nel senso che fin dalle origini il suo compito è stato quello di svolgere ruoli quaternari, connessi cioè alla produzione, all’interpretazione e alla messa in circolazione di informazione specializzata. A volerla restringere all’essenziale, nell’ultimo millennio e mezzo la sua storia svolge in maniera esemplare la vicenda dell’autorganizzazione di un sistema che attraverso la propria crescente complessificazione trasforma la propria struttura concreta senza però mutare la propria logica, e con essa la propria costituzionale identità. E ciò in virtù della capacità di trarre partito dalla perturbazione per rinchiudersi in maniera diversa su se stessa, generando nuovi ruoli e attività in grado di mantenere e rinforzare la natura originaria del funzionamento. Essenziale resta il fatto che per qualsiasi organismo i meccanismi dell’autorganizzazione sono quelli dell’attività cognitiva, i soli a permettere, attraverso il riconoscimento e il superamento della crisi, la nascita di nuove funzioni in grado di garantirne la sopravvivenza e la crescita. E che cosa fu, all’alba del Mille, l’invenzione a Bologna dello «Studio», dell’università, se non il risultato di tale attività da parte dell’organismo urbano bolognese?

Di converso: che cosa furono i fatti del 1977 se non l’effetto della sopravvenuta incapacità da parte di Bologna di accogliere, trattare, metabolizzare e rimettere in circuito il carico informazionale che dalla seconda metà degli anni Sessanta si era diretto verso di essa, e tradurlo in termini politici? Dell’incapacità di superare insomma un’ulteriore soglia del proprio processo auto organizzativo, di operare come mille anni prima nel senso di una progressiva articolazione della propria natura quaternaria, la sola il cui sviluppo sarebbe stato in grado di continuare a preservarne l’identità e perciò la coscienza, anzi il complesso delle coscienze?

Sul cerchio di gesso che marca contro il muro di via Mascarella il segno dei proiettili che l’11 marzo del 1977 uccisero Francesco Lo Russo qualcuno ha di recente apposto un tag nero: concretissimi soggetti, diversi dagli stessi studenti, provenienti da lontano e portatori di culture altre sono nel frattempo diventati visibili e si aggirano sotto i portici e lungo i viali. In fondo, come ha scritto Edgar Morin, «tutto ciò che esiste e si crea è qualcosa d’improbabile che hic et nunc diventa necessario». Il ritardo del dispositivo politico bolognese nel pensare la possibilità che «le cose potessero andare diversamente», per dirla con Karl Kraus, vale a dire il ritardo politico di Bologna dovuto alla sua mancanza di memoria, si traduce così nel dover fare i conti con necessità della cui portata soltanto oggi, a fatica e senza più grandi riferimenti, essa inizia a rendersi conto.