Il graffio intangibile di John Akomfrah, artista che opera su più fronti: dalla scrittura alla regia, dalla sceneggiatura alla curatela, oltre al suo peso come teorico e docente, sarà forse il segno più mordace di questa 60.ma Biennale del pensiero unico.

Il focus della sua ricerca, basato essenzialmente sulle politiche decoloniali e sulla black diaspora, persegue una veridicità e una attitudine che depista qualsiasi moda del momento, poiché sovverte e disgiunge la linearità del tempo storico e narrativo, crea instabilità tra la dimensione politica e quella privata e affonda nella soggettività. Sir John Akomfrah è nato ad Accra in Ghana, nel 1957, da genitori coinvolti nell’attivismo anticoloniale. In un’intervista a Sukhdev Sandhu, Akomfrah ha raccontato che suo padre era un membro del gabinetto del partito di Kwame Nkrumah. «Abbiamo lasciato il Ghana perché la vita di mia madre era in pericolo dopo il colpo di stato del 1966, e mio padre è morto in parte a causa della lotta che portò al colpo di stato». Migrato in Gran Bretagna da bambino, ha studiato nelle scuole nell’East London e all’University of Portsmouth, dove si è laureato in Sociologia nel 1982. Qui, ha co-fondato il Black Audio Film Collective (1982 – 1998) che raggruppa sette artisti e registi neri britannici e della diaspora. Un collettivo nato nel contesto del dibattito postcolonialista intessuto da teorici come Homi Bhabha e Stuart Hall.

John Akomfrah

Nel 1982 ha debuttato come regista con Handsworth Songs (1986) sui riots del 1985, tra la comunità afro-caraibica inglese e la polizia, che gli valse il Grierson Award come miglior documentario nel 1987. Con Lina Gopaul e David Lawson, Akomfrah ha poi co-fondato la Smoking Dogs Films nel 1998. Nel 2012, l’artista ha presentato al Sundance Film Festival The Stuart Hall Project, un lungometraggio mirabile che riafferma l’importanza dell’intellettuale e antropologo giamaicano, co-fondatore negli anni 60 della rivista New Left Review e ritenuto il massimo teorico del multiculturalismo. Attraverso una narrazione sostanzialmente diacronica del process of becoming, costruisce l’opera, centrando il momento in cui Hall matura la consapevolezza di essere un «black subject».
Utilizza materiali recuperati in tre anni e mezzo di ricerche condotte nell’archivio privato di Hall, dal quale estrae fotografie e spezzoni di home movies e li miscela all’archivio della Bbc. Tra le sue opere più note, The Nine Muses (2011), The Unfinished Conversation (2012), Peripeteia (2012), Vertigo Sea (2015), Purple (2017), Four Nocturnes (2019) e l’ultima Arcadia (2023).

A Venezia, Akomfrah proporrà Listening All Night To The Rain in cui riconduce l’indagine sui temi della memoria, della migrazione, dell’ingiustizia razziale e del cambiamento climatico con una attenzione particolare all’atto dell’ascolto e del suono che spingono a qualcosa di inatteso e a ribaltare i significati acquisiti. Riguardo la sua partecipazione, l’artista ha affermato di essere grato «di avere l’occasione per esplorare la complessa storia e il significato di questa istituzione e del paese che rappresenta, così come la sua dimora architettonica a Venezia, con tutte le storie che ha raccontato e che continuerà a narrare». La mostra, concepita come un’unica installazione immersiva, grazie a otto opere multischermo, basate sul tempo e sul suono, interconnesse e sovrapposte, rinvia alla centralità dell’ascolto come forma di attivismo.

Per questo, interpola varie teorie progressiste dell’acustemologia, intendendole come forme di differenziazione dell’ascolto. Listening All Night To The Rain vuole spingere i visitatori a vivere l’edificio neoclassico del XIX secolo del padiglione britannico in un modo diverso. Akomfrah interpreta e trasforma il tessuto dello spazio per ripensare e riscrivere le reliquie e i monumenti delle storie coloniali. La struttura espansa di Listening All Night To The Rain riflette la costante attenzione dell’artista per le forme non lineari di narrazione (spazio-tempo) con cui vuole ribadire la capacità dell’arte di scrivere la storia in modi inaspettati, formando connessioni sia critiche che poetiche tra differenti geografie e cronologie. Dell’opera l’artista racconta: «Allude al potere performativo che il suono avrà nel padiglione. L’insieme finale di installazioni, iterazioni di acustemologia, ritorna alle questioni della memoria e del memoriale ma da un diverso punto di vista, mettendo in discussione l’architettura del presente e gli spettri del passato. Sento che si può conoscere il mondo, che si può trovare un nome, un’identità e un senso di appartenenza, attraverso il suono