All’indomani dell’attacco alla base Onu a 120 chilometri a nord della capitale Juba, è il Sud Sudan a inviare l’esercito a difesa della missione delle Nazioni Unite (Unmiss). A riferirlo è stato ieri Ateny Wek Ateny, portavoce del presidente Salva Kiir dopo che un gruppo di circa 350 individui in abiti civili ha fatto irruzione giovedì mattina nel campo profughi della città di Bor nello stato dello Jonglei – nord del Paese – aprendo il fuoco contro circa 5 mila sfollati interni di etnia Nuer. Stime provvisorie riportano un bilancio di circa 58 morti di cui 10 tra gli aggressori e di almeno 100 feriti a seguito di un conflitto a fuoco con i caschi blu indiani e sud coreani. Gabriel Hilaire, project manager dell’ong Intersos, al momento dell’attacco si trovava nel campo profughi: «Li ho visti arrivare, armati. Hanno iniziato a sparare in mezzo alla gente: donne, bambini, anziani inermi. Non abbiamo potuto far altro che correre, ma non tutti si sono salvati». Secondo quanto riferito da un alto funzionario dell’Onu, Toby Lanzer, a fare irruzione sarebbero stati civili armati che col pretesto di presentare una petizione per il trasferimento degli sfollati Nuer in altra sede avrebbero forzato il cancello del compound dell’Unmiss e sparato indiscriminatamente contro donne, uomini e bambini. Gli scontri, sostiene l’Unmiss, sarebbero iniziati a ovest e a nord-ovest di Bentiu tra lunedì mattina presto e martedì, quando forze anti-governative avrebberoinvaso la città e il vicino quartiere di Rubkona.
«Come risultato dei combattimenti, il numero di sfollati interni nel compound Unmiss è salito a 12.000» sostengono dalla base Onu, aggiungendo che migliaia di sfollati si sono radunati nei pressi del Bentiu Hospital e della sede del World Food Programme.
L’attacco contro la minoranza Nuer del campo di Bor, secondo quanto Ateny Wek Ateny, sembra una spedizione punitiva in rappresaglia alla riconquista della città di Bentiu, capitale dello stato dello Unity e uno dei maggiori centri di produzione di petrolio, da parte dei ribelli dell’ex vice presidente Riek Machar, di etnia Nuer: «Quegli sfollati interni di Bor della comunità Nuer festeggiano la cattura di Bentiu da parte dei ribelli e questo ha fatto arrabbiare la comunità locale». Due giorni prima, sollecitando tutte le compagnie petrolifere che operano nelle aree controllate dal governo di fermare le loro operazioni ed evacuare il personale entro una settimana, il portavoce delle forze ribelli di Machar – Lul Ruai Koang – con un comunicato aveva rivendicato che «la riconquista di Bentiu segna la prima fase della liberazione dei campi petroliferi dalle forze anti- democratiche e pro-genocidio di Kiir». Già lunedì 14 secondo le dichiarazioni di un funzionario delle Nazioni Unite in Sud Sudan, Joe Contreras, i peacekeepers mongoli avevano messo in salvo 10 membri del personale della società petrolifera russa Safinat, appena a nord di Bentiu, due dei quali in condizioni critiche.
La Cina e la Russia, sono tra i maggiori investitori petroliferi del Sud Sudan dove operano tra le altre la China National Petroleum Corp , l’India Ongc Videsh e la Petronas della Malesia. Le Nazioni Unite dispongono di circa 8.000 peacekeepers in Sud Sudan e di una base a Bentiu dove migliaia di sfollati hanno trovato rifugio da quando sono scoppiati i combattimenti nel mese di dicembre 2013. Secondo un rapporto Onu dei più di un milione di sfollati a causa del conflitto, 803.200 rimangono all’interno del Paese mentre un altro 254 mila sono fuggiti nei Paesi limitrofi. In quattro mesi di conflitto, sarebbero circa 67.000 i civili ospitati presso le basi dell’Unmiss. I recenti combattimenti mandano in frantumi diverse settimane di calma nello stato dello Unity seguite a un fragile cessate il fuoco firmato nel mese di gennaio sotto l’egida del blocco regionale dell’Africa Orientale – l’Intergovernmental Authority on Development (Igad) – per porre fine a un conflitto innescato da una lotta di potere tra il presidente Salva Kiir e l’ex vicepresidente Riek Machar. Conflitto scoppiato a Juba intorno al 15 dicembre 2013 tra il governo e i ribelli fedeli all’ex vice presidente per questioni politiche di lungo corso e viziato da odii interetnici che hanno fatto precipitare il più giovane stato del mondo in una guerra civile che la comunità internazionale e gli Usa in particolare, di cui il Sud Sudan rimane una creatura voluta dall’amministrazione di G. W. Bush, è stata incapace di prevenire o fermare. Da New York Ban Ki-moon ha condannato l’aggressione ricordando che qualsiasi attacco contro le forze di pace delle Nazioni Unite è «inaccettabile e costituisce un crimine di guerra».