Vent’anni fa ieri, 3 agosto 1998, usciva con il suo primo saggio politico, una data da festeggiare
Con il Dio delle Piccole Cose, pubblicato nella primavera del 1997, si era affermata come la ‘voce nuova della nuova India’. Libro fin da subito best seller in una quantità di traduzioni da quel suo inglese così spesso irriverente. Per non dire del Booker Prize, premio letterario quanto mai ambito nel Regno Unito e quindi nel mondo. E quanto a lei, la bella Arundhati, eccola in una girandola di readings in giro per il mondo, vezzeggiata e seguita dai media indiani con interviste, reportages o semplici foto-notizie che la confermavano testimonial di un’India in progress al punto da sfornare una scrittrice appunto come lei, così in tutti i sensi padrona di sé, al tempo stesso glam e impegnata su temi non facili, come la questione delle caste…
Ma ecco che, nel maggio del 1998, il neo-governo BJP decide di procedere con il test nucleare di Pokharan, nel deserto rajasthano. Un primo test definito ‘pacifico’ si era già verificato nel 1974, questa volta la detonazione è potente, programmata nelle profondità del sottosuolo, tecnologicamente un successo. A  ruota segue un’esplosione di non minor forza in Pakistan e viene facile bollarle entrambe come ‘l’atomica dei poveri’ in linea con la logica della deterrenza – ma con implicazioni fin da subito terrificanti in  un’area che lo stesso Bill Clinton avrebbe di lì a poco definito ‘tra le più esplosive del pianeta’.
“Fu un momento di shock” ha rievocato in più occasioni la Roy, “posizioni impensabili prima si affermavano come sinistramente popolari, in un crescendo di orgoglio nazionalista che faceva a pugni con ciò che l’India era stata negli anni della guerra fredda, capofila dei paesi cosiddetti non allineati.”
Un testo-fiume, accorato, personalissimo e profondamente politico al tempo stesso, che con il titolo La Fine dell’Immaginazione il settimanale Outlook (all’epoca diretto dall’ottimo Vinod Mehta) pubblicò il 3 agosto del 1998 – ponendosi decisamente controcorrente rispetto al mood emergente già in quegli anni, agli albori dell’hindutva. Sulla scia del successo de Il Dio delle Piccole Cose il pamphlet venne ripreso anche su The Guardian e poi raccolto in libro, il primo di una lunga serie di scritti politici che nell’arco di vent’anni contribuirono all’affermazione di Arundhati Roy come brillante polemista, a suo agio sulla scena che solo pochi anni fa chiamavamo no global – come nei tanti readings che regolarmente registravano (e tuttora) il tutto esaurito. L’ultimo in ordine tempo si è tenuto proprio recentemente, primi di giugno, alla British Library di Londra in tema di ‘traduzione’, e per gentile concessione dell’autrice ne presentiamo un brano in queste stesse pagine.Fa un certo effetto rileggerlo, quel saggio, con una polveriera-India persino più inquietante di quella nucleare di vent’anni fa, con l’escalation di violenza riportata quotidianamente sui media: stupri, linciaggi, squadracce in libertà. Ma c’è una frase subito dopo i paragrafi iniziali, che è … proprio tutto un programma:

‘Sono pronta a strisciare, a umiliarmi… ma non a restare silenziosa…’ 
D.B. In effetti come scrittrice-attivista sei da vent’anni sulle barricate, e con un raro potere d’attrazione, seguito… (dico alla Roy, durante una recente chiacchierata che ripropongo qui nei punti essenziali).
A.R. Vent’anni fai non potei fare a meno di scrivere quel testo, per due motivi: perché dovevo; e perché dopo il successo de Il Dio delle Piccole Cose sarebbe stato sciocco tacere. Non fu un testo facile, non ero abituata a misurarmi con determinate tematiche. Ma non mi è mai piaciuta la definizione di scrittrice-attivista – come se fosse necessaria una doppia qualifica, oltre alla scrittura. Il mio lavoro come saggista o nella narrativa è lo stesso, espressione di una stessa visione politica del mondo, sono io che scrivo: con la finzione metto in scena un universo di situazioni, voci, istanze, corpi; come saggista provo a spiegare meglio i nessi. In India dove l’ideologia del majoritanism è ormai totalizzante – con la gente che sembra non avere altra aspirazione che quella del branco, una riedizione del fascismo di italiana memoria ma con proporzioni e dinamiche indiane, per cui spaventose – chiunque provi a dire una cosa diversa è immediatamente wrong, sbagliato, da rimettere in riga, perseguire, non solo per quello che dice ma perché è uscito dal branco. Ma questo deve fare uno scrittore: scrivere in dissonanza.
D.B. In vent’anni di scrittura in dissonanza ti sei trovata in sit con il movimento anti-dighe, con i movimenti NoWar ai tempi dell’attacco militare in Irak, in marcia con i Maoisti nelle foreste del Bastar, per non dire dell’inchiesta che smascherò la versione del complotto terrorista per l’attacco al Parlamento indiano nel 2001, e di quella circa le responsabilità di Modi nel massacro in Gujarath pochi mesi dopo – o di quel teatro di continui abusi che è il Kashmir. C’è stato un momento in cui ti sei sentita sconfitta; o in cui hai avuto paura? 
A.R. Mi sono sentita sconfitta quando Narendra Modi ha vinto con schiacciante maggioranza le elezione del 2014. Dopo tutto ciò che avevamo scritto e detto, non solo io… da non crederci. Avrei potuto entrare in ibernazione per i cinque anni successivi – oppure mettermi al lavoro sul quel romanzo che tutti si aspettavano da me, e che da anni stavo scrivendo ma in modo intermittente. Così ho fatto, sebbene spesso alle prese con interventi a caldo. ll momento in cui ho avuto paura è stato nei primi mesi del 2016, quando in tutte le Università indiane è dilagata la protesta per il suicidio di Rohith Vemula, uno studente dalit: ed ecco il mio nome costantemente ripetuto nei talk show come principale responsabile del crescente sentimento anti-national. Ho avuto paura: per la mia incolumità, e più ancora per il libro che mi ero impegnata a consegnare entro pochi mesi. Ho preso il primo aereo, mi sono rifugiata a Londra. Ma ci sono rimasta solo una decina di giorni, scappare non è da me. E  il libro aveva bisogno dell’India, di Delhi, per continuare…
D.B. L’India che vent’anni fa si affermava come potenza nucleare a Pokharan ci fa quasi rimpiangere il faccione benevolente di un A.B. Vajpajee o persino un falco come L.K. Advani: le manifestazioni di estremismo, in qualche modo promosse o permesse da Narendra Modi, sono al di là di ogni immaginazione, che cosa sta succedendo? 
A.R. In vent’anni sono successe un sacco di cose tremende, sulla scia delle liberalizzazioni attuate dai primi anni ’90 nel nome del più sconsiderato interventismo corporativo, in particolare nel settore estrattivo. Decine e decine di accordi vennero firmati con le multinazionali dell’acciaio, dell’alluminio, del carbone (solo per citare alcuni comparti) in territori già molto in tensione nelle aree tribali del centro India, e la conseguenza è che quelle aree sono ormai completamente militarizzate, con interventi repressivi da parte delle forze dell’ordine che colpiscono innanzitutto le popolazioni locali, con la scusa della caccia ai naxaliti. Ma la massiccia affermazione di Modi alle ultime elezioni del 2014, sulla scorta dei ‘successi’ registrati durante gli anni del suo governo in Gujarath in termini di investimenti esteri, ha rivelato un bisogno di affermazione a livello di massa, che sta inquinando ogni spazio di confronto, per esempio rispetto alle minoranze, innanzitutto quella musulmana, puntando sull’incitamento punitivo verso tutto ciò che è in contrasto con i precetti dell’induismo, dal consumo di carne, alla semplice lavorazione del pellame. L’escalation di violenza che si è sviluppata in questi anni è spaventosa perché non esita a ricorrere a qualsiasi abiezione, lo stupro è ormai una cosa normale, sempre più spesso di branco, nei confronti anche di bambine, come nel caso della piccola Asifa Bano a Kathua, tra i pochi casi a fare ‘notizia’ in occidente. Ma la notizia ulteriormente terrificante di quello stupro, per fare un esempio, è stata la protesta delle migliaia di devoti induisti (tra cui molte donne, madri di famiglia!) contro le indagini che ne rivelavano le circostanze rituali, oserei dire sataniche. In questo incandescente scenario l’India si sta avviando di nuovo verso il voto, nel maggio 2019: saranno elezioni senza esclusioni di colpi, manipolate in tutti i possibili modi dalla vera e propria fabbrica di fake news – succederà di tutto…
D.B. Vent’anni di interventi, prese di posizione, scrittura in dissonanza… che nonostante tutto, non ti hanno fiaccato nella passione di esporti, ragionare in pubblico, traghettare mondi e situazioni che resterebbero invisibili senza il tuo lavoro. C’è qualcosa in cui possiamo sperare, che possiamo fare, oltre a contemplare il disastro?
A.R. Recentemente mi è toccato rileggere uno dopo l’altro tutti gli scritti che ho sfornato dopo quel primo intervento contro la Bomba, vent’anni fa – e l’ho fatto non certo per narcisismo, ma in vista di una prossima uscita editoriale, che in oltre 1000 pagine sarà appunto la raccolta di tutto ciò che ho scritto, e ti posso già dire il titolo: Il mio cuore sedizioso, come il titolo del mio ultimo intervento (precedente l’uscita de Il Ministero della Suprema Felicità, ndr), e so che anche Guanda curerà l’edizione italiana e ne sono felice… E’ stato interessante e in qualche modo anche triste riattraversare a distanza le passioni che mi hanno visto coinvolta, nell’arco di vent’anni, visti i risultati… ma la conclusione che mi sono ritrovata a trarre, è che niente potrà mai cambiare fino a che il mondo continuerà ad essere dominato da questo sistema, da questa vera e propria morsa, che chiamiamo Capitalismo, e che è pura e cieca e rapace e infinita devastazione, per il semplice fatto che per affermarsi richiede un’infinita accumulazione e quindi sfruttamento. Il Comunismo ha cercato di contrapporsi con la promessa di un mondo un po’ più uguale, commettendo non pochi errori e porcherie, devastando a sua volta – e resterebbe l’unica alternativa, benché chissà quando, e come… insomma improbabile. Ma anche senza scomodare il fantasma del Comunismo, anche senza immaginare le condizioni di una Lotta di Classe coordinata e vincente a livello planetario, la quantità di situazioni che resistono, che si oppongono, che ogni giorno cercano e persino riescono ad affermare un mondo diverso, una vita sostenibile e sicuramente più bella, gioiosa, in ogni parte dell’India e del mondo – è straordinaria, e inesauribile. Ed è in quel mondo che io spero, anzi credo, perché è anche il mio.
(qui ci sarebbe quella testatina dal web/magazine raion.in per dire della Lecture alla Sebald Foundation come vedi nel link
  
(…) Per me, o per la maggior parte degli scrittori contemporanei che lavorano dalle mie parti, la lingua non è mai una cosa scontata. Dev’essere elaborata. Dev’essere cotta. A fuoco lento.
Fu solo dopo aver scritto Il Dio delle Piccole Cose che sentii il sangue fluire più liberamente nelle vene. Era un sollievo inimmaginabile aver trovato finalmente un linguaggio che assomigliava al mio. Una lingua in cui avrei potuto scrivere nel modo in cui penso. Un linguaggio che mi liberava. Il sollievo non durò a lungo. Come avrebbe detto Estha (uno dei gemelli/protagonisti de Il Dio delle Piccole Cose – ndr)le cose possono cambiare in un giorno.
Meno di un anno dopo la pubblicazione de Il Dio delle Piccole Cose, nel maggio 1998un governo nazionalista indù arrivò al potere,  Come prima cosa decise di condurre una serie di test nucleari. Una cosa convulsa. Qualcosa era cambiato. Di nuovo c’entrava con il linguaggio. Non la lingua privata dello scrittore, ma la lingua pubblica di un paese, la sua pubblica immaginazione. Improvvisamente, cose che sarebbe stato impensabile dire in pubblico, diventavano accettabili. Ufficialmente accettabili. Il virile orgoglio nazionale, che aveva più a che fare con l’odio che con l’amore, scorreva come una lava tossica per le strade. Sconcertata dalle celebrazioni anche nei quartieri più inaspettati, scrissi il mio primo saggio politico, La Fine dell’Immaginazione. Anche la mia lingua cambiò. Non più a fuoco lento. Non il linguaggio segreto del romanzo. Era rapida, urgente, pubblica. E direttamente in inglese. Rileggendo ora La fine dell’Immaginazione, è confortante vedere quanto chiari fossero i segnali di pericolo, per chiunque, e lo dico davvero, per chiunque fosse interessato a capire:
“Questi non sono solo test nucleari, sono test di nazionalismo”, ci è stato detto più volte. Il messaggio è stato impartito in modo martellante, più e più volte. La bomba è l’India, l’India è la bomba. E non un India qualsiasi, bensì l’India indù. Pertanto, sappilo, ogni critica non è solo anti-nazionale, ma anti-indù. (Naturalmente in Pakistan la bomba è islamica. A parte questo, politicamente vale la stessa fisica). Ecco uno dei vantaggi insperati di avere una bomba nucleare. Non solo il governo può utilizzarlo per minacciare il nemico, ma può usarlo per dichiarare guerra al proprio popolo. Noi… Perché tutto sembra così familiare? Perché, proprio mentre guardi, la realtà ti si confonde e proietta quasi senza interruzioni quei silenziosi fotogrammi in bianco e nero, di quei vecchi film – scene di persone sfollate dalle loro vite, perseguitate, assembrate nei campi?  Scene di massacro, caos, colonne infinite di persone a pezzi mentre procedono verso il nulla. Perché manca la colonna sonora? Perché la sala è così silenziosa? Ho visto troppi film?
Sono pazza? Oppure ho ragione?”
Il caos arrivò per davvero. Il 7 ottobre 2001, tre settimane dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 (9/11), il Bharatiya Janata Party (BJP), allora al potere nello stato di Gujarat, rimosse il suo Primo Ministro eletto, Keshubhai Patel, e nominò al suo posto Narendra Modi, una stella nascente nell’RSS (Rashtriya Swayamsevak Sangh, ovvero Organizzazione Nazionale di Volontari fondata nel 1925 da K.B. Hedgewar, sul modello delle organizzazioni fasciste – ndr).
Nel febbraio 2002, per cause sicuramente dolose, sessantotto pellegrini indù vennero bruciati vivi in un treno che si era fermato a Godhra, una stazione ferroviaria nel Gujarat. La colpa dell’incendio venne immediatamente attribuita ai musulmani di quella città. Come “vendetta” più di mille musulmani vennero massacrati in pieno giorno dalle folle indù, in tutte le città e villaggi del Gujarat. Più di centomila vennero cacciati dalle loro case e ammassati in campi profughi. Sicuramente non fu il primo massacro ai danni di una comunità minoritaria nell’India post-indipendenza, ma fu il primo ad essere trasmesso in diretta nelle nostre case.

La Fine dell’Immaginazione è stato per me l’inizio di vent’anni di scrittura saggistica. Quasi tutti i saggi sono stati immediatamente tradotti in hindi, malayalam, marathi, urdu e punjabi, spesso a mia insaputa. Increduli seguivamo gli sviluppi di quel waltzer sempre più intimo, tra il peggior fondamentalismo religioso e quello altrettanto sfrenato del libero mercato, che era stato promosso alla grande fin dai primi anni ’90 – modificando il paesaggio intorno a noi a una velocità che era stata molto divertente per alcuni, e devastante per molti altri. Enormi progetti infrastrutturali stavano sfollando centinaia di migliaia di poveri nelle aree rurali, lasciandoli alla deriva in un mondo che non sembrava neppure capace di vederli – o semplicemente non voleva. Era come se città e campagne avessero smesso di comunicare tra di loro. E il problema non era la diversità di linguaggio, semmai la traduzione. Ad esempio, i giudici dall’alto dei loro scranni nella Corte Suprema, sembravano incapaci di capire l’impossibilità di tradurre in denaro il rapporto con la terra, per una persona appartenente a una tribù indigena. (Io stessa sono stato accusata di oltraggio alla Corte per aver detto, tra le altre cose, che offrire compensi in denaro agli adivasi, ovvero agli indigeni, era come pagare in sacchi di fertilizzanti i salari destinati alla Corte Suprema.)

Nel corso degli anni, quei saggi dischiusero mondi segreti anche per me – il miglior compenso cui qualsiasi scrittore può aspirare. Viaggiando, incontravo linguaggi, storie e persone il cui modo di pensare ha contribuito ad espandere il mio, in modi che non avrei mai immaginato.

(link alla versione integrale di questo testo:
http://raiot.in/in-what-language-does-rain-fall-over-tormented-cities/)
In quale lingua cade la pioggia sulle città tormentate?
Questo il titolo alquanto sibillino, preso a prestito dal Libro delle Domande di Pablo Neruda, con cui Arundhati Roy si e recentemente presentata in un rapido giro di conferenze, tra New York, Londra, Oxford. Un saggio originalissimo e sorprendente, scritto su invito della Sebald Foundation sul tema della traduzione, che la scrittrice indiana si è concessa il piacere di svolgere come un excursus nella propria stessa avventura umana, prima ancora che letteraria, nel continuo intreccio di urgenze, ambiguità, impegno, dentro e fuori le varie lingue (oltre 800, di cui solo una manciata ufficiali!) di un’India descritta come un formidabile laboratorio di mutamenti politici, sociali e inevitabilmente anche espressivi o linguistici. Una lecture in tutti i sensi magistrale, di cui pubblichiamo qui solo un breve brano (per gentile concessione della stessa autrice) insieme al link alla versione integrale sul webzine raiot.in,

frutto del lavoro del documentarista Tarun Bhartiya insieme al collettivo TUR (acronimo che sta per Thma U Rangli Juki che in lingua khasi significa Guerra di Povera Gente) nello stato orientale del Meghalaya e bell’esempio di cultural activism indiano, 

un estratto dalla Lecture alla Sebald Foundation (vedi link http://raiot.in/in-what-language-does-rain-fall-over-tormented-cities/)
  
(…) Per me, o per la maggior parte degli scrittori contemporanei che lavorano dalle mie parti, la lingua non è mai una cosa scontata. Dev’essere elaborata. Dev’essere cotta. A fuoco lento.
Fu solo dopo aver scritto Il Dio delle Piccole Cose che sentii il sangue fluire più liberamente nelle vene. Era un sollievo inimmaginabile aver trovato finalmente un linguaggio che assomigliava al mio. Una lingua in cui avrei potuto scrivere nel modo in cui penso. Un linguaggio che mi liberava. Il sollievo non durò a lungo. Come avrebbe detto Estha (uno dei gemelli/protagonisti de Il Dio delle Piccole Cose – ndr)le cose possono cambiare in un giorno.
Meno di un anno dopo la pubblicazione de Il Dio delle Piccole Cose, nel maggio 1998un governo nazionalista indù arrivò al potere,  Come prima cosa decise di condurre una serie di test nucleari. Una cosa convulsa. Qualcosa era cambiato. Di nuovo c’entrava con il linguaggio. Non la lingua privata dello scrittore, ma la lingua pubblica di un paese, la sua pubblica immaginazione. Improvvisamente, cose che sarebbe stato impensabile dire in pubblico, diventavano accettabili. Ufficialmente accettabili. Il virile orgoglio nazionale, che aveva più a che fare con l’odio che con l’amore, scorreva come una lava tossica per le strade. Sconcertata dalle celebrazioni anche nei quartieri più inaspettati, scrissi il mio primo saggio politico, La Fine dell’Immaginazione. Anche la mia lingua cambiò. Non più a fuoco lento. Non il linguaggio segreto del romanzo. Era rapida, urgente, pubblica. E direttamente in inglese. Rileggendo ora La fine dell’Immaginazione, è confortante vedere quanto chiari fossero i segnali di pericolo, per chiunque, e lo dico davvero, per chiunque fosse interessato a capire:
“Questi non sono solo test nucleari, sono test di nazionalismo”, ci è stato detto più volte. Il messaggio è stato impartito in modo martellante, più e più volte. La bomba è l’India, l’India è la bomba. E non un India qualsiasi, bensì l’India indù. Pertanto, sappilo, ogni critica non è solo anti-nazionale, ma anti-indù. (Naturalmente in Pakistan la bomba è islamica. A parte questo, politicamente vale la stessa fisica). Ecco uno dei vantaggi insperati di avere una bomba nucleare. Non solo il governo può utilizzarlo per minacciare il nemico, ma può usarlo per dichiarare guerra al proprio popolo. Noi… Perché tutto sembra così familiare? Perché, proprio mentre guardi, la realtà ti si confonde e proietta quasi senza interruzioni quei silenziosi fotogrammi in bianco e nero, di quei vecchi film – scene di persone sfollate dalle loro vite, perseguitate, assembrate nei campi?  Scene di massacro, caos, colonne infinite di persone a pezzi mentre procedono verso il nulla. Perché manca la colonna sonora? Perché la sala è così silenziosa? Ho visto troppi film?
Sono pazza? Oppure ho ragione?”
Il caos arrivò per davvero. Il 7 ottobre 2001, tre settimane dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 (9/11), il Bharatiya Janata Party (BJP), allora al potere nello stato di Gujarat, rimosse il suo Primo Ministro eletto, Keshubhai Patel, e nominò al suo posto Narendra Modi, una stella nascente nell’RSS (Rashtriya Swayamsevak Sangh, ovvero Organizzazione Nazionale di Volontari fondata nel 1925 da K.B. Hedgewar, sul modello delle organizzazioni fasciste – ndr).
Nel febbraio 2002, per cause sicuramente dolose, sessantotto pellegrini indù vennero bruciati vivi in un treno che si era fermato a Godhra, una stazione ferroviaria nel Gujarat. La colpa dell’incendio venne immediatamente attribuita ai musulmani di quella città. Come “vendetta” più di mille musulmani vennero massacrati in pieno giorno dalle folle indù, in tutte le città e villaggi del Gujarat. Più di centomila vennero cacciati dalle loro case e ammassati in campi profughi. Sicuramente non fu il primo massacro ai danni di una comunità minoritaria nell’India post-indipendenza, ma fu il primo ad essere trasmesso in diretta nelle nostre case.

La Fine dell’Immaginazione è stato per me l’inizio di vent’anni di scrittura saggistica. Quasi tutti i saggi sono stati immediatamente tradotti in hindi, malayalam, marathi, urdu e punjabi, spesso a mia insaputa. Increduli seguivamo gli sviluppi di quel waltzer sempre più intimo, tra il peggior fondamentalismo religioso e quello altrettanto sfrenato del libero mercato, che era stato promosso alla grande fin dai primi anni ’90 – modificando il paesaggio intorno a noi a una velocità che era stata molto divertente per alcuni, e devastante per molti altri. Enormi progetti infrastrutturali stavano sfollando centinaia di migliaia di poveri nelle aree rurali, lasciandoli alla deriva in un mondo che non sembrava neppure capace di vederli – o semplicemente non voleva. Era come se città e campagne avessero smesso di comunicare tra di loro. E il problema non era la diversità di linguaggio, semmai la traduzione. Ad esempio, i giudici dall’alto dei loro scranni nella Corte Suprema, sembravano incapaci di capire l’impossibilità di tradurre in denaro il rapporto con la terra, per una persona appartenente a una tribù indigena. (Io stessa sono stato accusata di oltraggio alla Corte per aver detto, tra le altre cose, che offrire compensi in denaro agli adivasi, ovvero agli indigeni, era come pagare in sacchi di fertilizzanti i salari destinati alla Corte Suprema.)

Nel corso degli anni, quei saggi dischiusero mondi segreti anche per me – il miglior compenso cui qualsiasi scrittore può aspirare. Viaggiando, incontravo linguaggi, storie e persone il cui modo di pensare ha contribuito ad espandere il mio, in modi che non avrei mai immaginato.

(link alla versione integrale di questo testo:
http://raiot.in/in-what-language-does-rain-fall-over-tormented-cities/)
In quale lingua cade la pioggia sulle città tormentate?
Questo il titolo alquanto sibillino, preso a prestito dal Libro delle Domande di Pablo Neruda, con cui Arundhati Roy si e recentemente presentata in un rapido giro di conferenze, tra New York, Londra, Oxford. Un saggio originalissimo e sorprendente, scritto su invito della Sebald Foundation sul tema della traduzione, che la scrittrice indiana si è concessa il piacere di svolgere come un excursus nella propria stessa avventura umana, prima ancora che letteraria, nel continuo intreccio di urgenze, ambiguità, impegno, dentro e fuori le varie lingue (oltre 800, di cui solo una manciata ufficiali!) di un’India descritta come un formidabile laboratorio di mutamenti politici, sociali e inevitabilmente anche espressivi o linguistici. Una lecture in tutti i sensi magistrale, di cui pubblichiamo qui solo un breve brano (per gentile concessione della stessa autrice) insieme al link alla versione integrale sul webzine raiot.in,
frutto del lavoro del documentarista Tarun Bhartiya insieme al collettivo TUR (acronimo che sta per Thma U Rangli Juki che in lingua khasi significa Guerra di Povera Gente) nello stato orientale del Meghalaya e bell’esempio di cultural activism indiano. La foto di apertura è un sorprendente ritratto di una giovanissima Arundhati Roy, per l’occasione modella di gioielli rajasthani, scattato nell’agosto del 1982 dallo scrittore nonché amico di sempre, Carlo Buldrini, a quel tempo corrispondente in India per il quotidiano ‘Lotta Continua’.