Sono in tanti, in queste ore, a temere gli effetti dello Tsunami che si è abbattuto sulla capitale. L’arresto di Manlio Cerroni, il Re di Malagrotta, non ha solo sconvolto il sistema quarantennale di gestione dei rifiuti nella capitale, basato sul doppio assioma monopolio/discarica. Dietro il suo sconfinato impero (che copre l’intera penisola, dalla Calabria alla Lombardia, allargandosi fino all’Australia) c’è un sistema di complicità politiche inimmaginabile, partito dagli anni ’60 andreottiani e arrivato fino alle più recenti amministrazioni regionali. Forse non avranno rilievo penale per i magistrati, ma di certo le tante e lunghe conversazioni più che amichevoli tra il «Supremo» – così qualcuno nella regione Lazio chiamava Cerroni – e gli amministratori, soprattutto dell’area Pd, disegnano con una nuova luce la storia politica romana e laziale degli ultimi anni.

Il fatto di cronaca di partenza è in fondo semplice, anche se devastante: i carabinieri del Noe, dopo cinque anni di indagine, hanno arrestato Cerroni, i suoi uomini più fidati (ad iniziare dall’ex presidente socialista del Lazio Bruno Landi) e due dirigenti di vertice della regione, Luca Fegatelli e Raniero De Filippis, attualmente riconfermati dalla giunta Zingaretti in posti strategici, con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla truffa e al traffico illecito di rifiuti, oltre ad una miriade di altri reati fine. Ventuno, complessivamente, gli indagati, tra i quali l’ex governatore Piero Marrazzo e l’ex assessore all’ambiente romano Giovanni Hermanin, oltre al defunto Mario Di Carlo, ampiamente citato nell’ordinanza di custodia cautelare. Venticinque le perquisizioni effettuate ieri, su ordine della procura di Roma. In altre parole l’impero del signore di Malagrotta è crollato in poche ore, mentre la discovery processuale mostra nell’intimo il sistema della Holding più potente della capitale.

L’operazione è nata dall’unione di tante inchieste. La vera svolta era arrivata nel 2011 dalla procura di Velletri, che dal 2009 stava indagando silenziosamente su una presunta truffa milionaria ai danni di una decina di comuni dei Castelli romani, serviti dagli impianti di una delle tante aziende del gruppo Cerroni, ad Albano Laziale. Tre anni fa il pm di Velletri Giuseppe Travaglini aveva chiesto al Gip l’arresto del patron di Malagrotta e dei suoi uomini, accusandoli di aver intascato illecitamente circa 9 milioni di euro. In sostanza – secondo l’accusa – l’impianto di Albano Laziale produceva una quantità di combustibile da rifiuti di gran lunga inferiore alle quantità minime previste dalla normativa regionale. La tariffa pagata dai comuni – e quindi dagli abitanti della zona – includeva, però, quella quantità fantasma. Solo «nell’anno 2012 – scrivono i magistrati -, vi sarebbe stato un indebito guadagno di 331.018,80». Un sistema, questo, che è durato almeno sette anni: «Complessivamente, il profitto indebito percepito per il periodo 2006-2012 (agosto) ammonta a non meno di 4.902.000,00 Euro per quanto concerne le maggiori somme percepite dalla società per effetto del minore avviamento a termodistruzione del CDR prodotto». Una cifra che – secondo la perizia disposta dalla procura – si andava ad aggiungere ad un incremento della tariffa in realtà non dovuto.

L’inchiesta subì un primo stop nell’aprile del 2006, quando il Gip di Velletri respinse la richiesta di arresto dichiarandosi non competente territorialmente. I faldoni, a quel punto, sono passati alla procura romana, che li ha uniti con altre inchieste in corso, riascoltando quasi cinque anni di intercettazioni telefoniche e ambientali.

Alla truffa milionaria si aggiunse un altro tassello chiave per capire il sistema Cerroni, che riguardava il progetto per l’inceneritore di Albano Laziale, proposto dal consorzio Coema, una joint venture tra Colari, Ama e Acea. Un’opera fortemente contestata dalla cittadinanza dei Castelli Romani, che – attraverso il comitato No Inc – ha continuato ad inviare esposti ai magistrati, arricchendo l’inchiesta che si è conclusa ieri con i sette arresti. La questione, però, era chi pagava l’impianto. I vergognosi incentivi Cip 6 – alimentati dalle bollette elettriche – erano in teoria scaduti nel 2007 e per l’avvocato di Malagrotta era chiaro che senza finanziamenti pubblici l’opera non sarebbe stata realizzata.

In questo periodo – a cavallo tra il 2007 e il 2008 – Cerroni contatta diversi politici nazionali, spiegano gli investigatori. Scrive il Gip nell’ordinanza di custodia cautelare: «Si registrano reiterati contatti, anche personali, con parlamentari (Beppe Fioroni, Ermete Realacci ed Edo Ronchi – non indagati, ndr) e un generoso contributo di 20.000 euro alla fondazione “Sviluppo Sostenibile” (gestita dal terzo)». Un’attività di lobbying, senza rilievo penale, sottolineano i magistrati, ma in grado di creare quell’ambiente politico favorevole alla proroga dei contributi e all’inclusione della Regione Lazio nel futuro provvedimento nazionale che riproponeva una tantum i contributi Cip 6.

Quell’impianto era però inutile e mai previsto dai piani regionali: «Né del resto, come si vedrà tra poco, in quella parte del Lazio vi era alcun bisogno di un altro impianto di termovalorizzazione – scrive il Gip – (…) e incomprensibile è il motivo per cui la Regione Lazio avrebbe dovuto approvare l’impianto, visto che in quella zona c’erano già due termovalorizzatori, rispettivamente a Colleferro e a San Vittore, mentre a nord esisteva solo quello, peraltro in corso di realizzazione, di Malagrotta».

Ad aiutare Cerroni entra a questo punto in gioco anche la politica regionale. L’allora assessore Filiberto Zaratti – oggi deputato di Sel – si era opposto alla realizzazione dell’impianto, tanto che il suo ufficio aveva, nel marzo 2008, negato l’autorizzazione integrata ambientale. Per i magistrati in questa fase diventa cruciale il ruolo di Mario Di Carlo, che – proprio in quel periodo – si stava preparando a sostituire Zaratti nella delega sui rifiuti. Alla fine – con la firma di un decreto da parte di Piero Marrazzo – il momentaneo blocco dell’impianto viene superato e Cerroni può cantare vittoria. Il tutto grazie ad un sistema di pressione continua sulla politica e sui dirigenti regionali arrestati ieri, secondo la tesi della procura di Roma.

Le ultime indagini in ordine di tempo hanno riguardato anche la gestione del sistema di rifiuti a Borgo Montello, in provincia di Latina, dove il gruppo Cerroni controlla una parte della seconda discarica del Lazio. In questo territorio si sta giocando una battaglia senza esclusione di colpi per il controllo degli impianti di trattamento dei rifiuti destinati probabilmente a sostituire anche Malagrotta. Tre sono i «Tmb» previsti (sistemi che producono il combustibile per gli inceneritori trattando la monnezza), per una capacità pari a tre volte la produzione della zona. Ad Aprilia una società locale – la Rida Ambiente – ha investito doversi milioni di euro per realizzare un sistema alternativo alle discariche, diventando – per i magistrati – un pericoloso concorrente per il gruppo di Manlio Cerroni. Una battaglia senza esclusione di colpi quella che l’avvocato di Pisoninano avrebbe combattuto contro l’azienda rivale, ottenendo dalla Regione Lazio una vera e propria politica ostruzionistica, è l’ipotesi di accusa della procura. E proprio qui il braccio destro di Cerroni, Bruno Landi, sta da mesi affrontando un’altra delicata indagine per avvelenamento delle acque: mentre i colossi della monnezza si sono contesi il territorio, le falde acquifere hanno assorbito quantità enormi di metalli pesanti, trasformando l’antica pontina in un inferno.