Nel 2016, con il suo primo romanzo, The Joyce Girl, ipotizzando l’incesto di Lucia, la figlia di James Joyce, sia con il fratello maggiore sia con il famoso padre, e scaricando tutte le colpe della sua malattia mentale sulla madre Nora, la scrittrice inglese Annabel Abbs si attirò le ire dei joyciani di tutto il mondo.
Mentre lo Irish Times giudicò il libro «erroneo dal punto di vista fattuale e scritto male» e lo Irish Examiner arrivò a parlare di disonestà, «abuso infantile letterario e pedopornografia», John McCourt, autorevole membro della International James Joyce Foundation, lo definì «eccellente candidato al titolo di peggior ‘biografia’ di argomento joyciano mai scritta».

A soli due anni di distanza, Annabel Abbs, utilizzando gli stessi espedienti narrativi, ovvero rimpinguando i fatti con una buona dose di illazioni personali, ha pubblicato un altro romanzo biografico, Frieda (martedì in uscita per Einaudi, traduzione Federica Aceto, pp. 384, € 21,00) ispirato alla turbinosa passione tra D. H. Lawrence e Frieda von Richtofen.

La vicenda, che racconta l’abbandono del tetto coniugale, nel 1912, da parte dell’aristocratica tedesca, moglie di un professore universitario di Nottingham e madre di tre bambini, parte da un viaggio a Monaco di Baviera, avvenuto cinque anni prima, durante il quale la donna, essendo venuta a contatto con il trasgressivo ambiente intellettuale tedesco, scopre le nuove, rivoluzionarie teorie psicoanalitiche, nonché il libero amore.

Mettendo a confronto la grigia realtà provinciale inglese e la sessualità repressa del marito con le opportunità culturali e le pratiche erotiche sperimentate nel suo paese natio, Frieda è lacerata da un’insoddisfazione che cerca di placare, prima tramite la relazione con un amico di famiglia, poi lasciandosi andare senza freni alla passione per lo squattrinato scrittore di origine proletaria, David Herbert Lawrence, con cui, a poche settimane dal loro primo incontro, parte per un viaggio in Germania destinato a trasformarsi in una vera e propria fuga.

Nel tentativo di riabilitare Frieda, figura piuttosto controversa di promiscua virago, che viene trasformata a un tempo in dea del sesso, madre amorosa, tormentata per l’abbandono dei figli, e musa di un genio (nonché sua ghost writer) Abbs usa gli stessi accorgimenti messi in atto nel precedente lavoro e candidamente espostinel preambolo di The Joyce Girl: «racimolare» i fatti attraverso una sommaria ricerca e poi «immaginare il resto», per giungere alla «verità emotiva» del personaggio. Ovvero, sempre secondo le parole dell’autrice, cercare attraverso la narrativa un «accesso emotivo al passato».

Il termine chiave per questi lavori di biografia fittizia pare dunque essere emotivo, inteso anche come antonimo di veritiero. La questione dell’attendibilità dei fatti non si direbbe toccare l’autrice che, in una nota finale ammette di aver omesso o posposto un paio di relazioni adulterine di Frieda precedenti il soggiorno a Monaco, e altrettante successive al suo incontro con Lawrence: per non «ostacolare il ritmo del romanzo (e) non sfilacciare troppo la trama».

Così, Frieda, prima dell’incontro e della focosa relazione a Monaco con lo psicoanalista Otto Gross, è descritta come una sorta di virginea casalinga disperata, mentre il giovane Lawrence è un ragazzotto rozzo e malvestito che una Frieda ormai adusa ai piaceri del sesso introduce al culto dell’eros, facendosi intrecciare fiori di bosco tra i peli pubici, come nella più grottesca scena erotica di Lady Chatterley. Del resto, l’intero romanzo è scritto cercando di mimare lo stile lawrenciano, ora tentando di riprodurne l’afflato panico ora l’espressione della «coscienza fallica» dell’autore di Nottingham.

Peccato che la costante tensione di Lawrence verso il reperimento di un linguaggio naturale, fisico e mistico al tempo stesso, sia irriproducibile: l’imitazione del «verbo incarnato» lorenziano è goffa quando non involontariamente parodica, spesso riducendosi alla puntigliosa elencazione delle più astruse nomenclature floreali.