Le politiche di austerità praticate in Europa per ristabilire il pareggio di bilancio e ridurre il debito pubblico hanno depresso la domanda aggregata, raddoppiando la disoccupazione che nel 2007, primo anno della crisi, era al 6,1%, e nel 2015 raggiungerà il 12,7% solo in Italia. Nel 2013 i disoccupati nel mondo erano 202 milioni, 5 milioni in più del 2012. Nel 2018 aumenteranno di altri 13 milioni. Ad oggi i lavoratori poveri sono 200 milioni e sopravvivono con meno di due dollari al giorno. I più penalizzati saranno i ragazzi tra i 15 e i 24 anni: 74,5 milioni di disoccupati. Solo In Italia, ad oggi, sono il 41,7% del totale.

Secondo il rapporto «Global Employment Trends 2014» diffuso ieri dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), la crisi finirà quando le politiche di austerità non verranno ritrattate, la ripresa sarà «fragile» e non produrrà un aumento dell’occupazione stabile. Sarà cioè una «Jobless recovery», formula ormai nota per descrivere il fenomeno del prossimo decennio: una ripresa economica – più propriamente finanziaria – che non produrrà nuova occupazione, aumentando precarietà, inoccupazione, disoccupazione e l’enorme fenomeno dello «scoraggiamento».

L’Italia ha raggiunto un record anche in questo campo: ci sono 3,3 milioni (13,1% della forza lavoro, quasi un punto in più del terzo trimestre 2012) di persone disponibili a lavorare ma che non cercano alcun posto di lavoro. Per l’Ilo aumenteranno le disparità tra fasce di età. Quel poco di crescita occupazionale che c’è stata tra il 2007 e il 2012 è andata a beneficio dei lavoratori più anziani (55-64 anni). Secondo le sue proiezioni «sarà necessario più di un decennio prima che i tassi di disoccupazione ritornino ai livelli pre-crisi».

Queste previsioni possono essere spiegate anche con il rapporto sulla coesione sociale diffuso a fine dicembre dall’Inps, Istat e dal ministero del Lavoro. I più colpiti dalla crisi sono stati i ragazzi tra i 15 e i 24 anni, e i giovani adulti fino ai 34 anni. I lavoratori dipendenti sotto i 30 anni sono diminuiti dal 18,9% al 15,9%. Nell’ultimo quadriennio i «giovani» a tempo indeterminato sono passati dal 16,8% al 14%. La precarietà è esplosa. Nel primo semestre 2013 il 67% dei rapporti di lavoro era a tempo determinato.

«Nei paesi in crisi nella periferia dell’Eurozona (i cosiddetti “Piigs”: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) – scrive l’Ilo – le misure di consolidamento fiscale hanno avuto effetti negativi diretti sui consumi privati in relazione al Pil». Questa valutazione è stata confermata da Bankitalia: dal 2008, la crisi ha bruciato 520 miliardi della ricchezza nazionale, bruciando 24mila euro di risparmi a famiglia. Ne è derivato il crollo dei consumi. Secondo l’Istat, solo nei primi nove mesi del 2013 il potere d’acquisto delle famiglie consumatrici è calato dell’1,5%. Negli ultimi due anni avrebbero «tagliato» 50 miliardi di euro di spesa. In compenso arriveranno i ricari delle tariffe di cibo, autostrade, luce e gas, riscaldamento, Imposta unica comunale (Iuc) e addizionali Irpef. Secondo Federconsumtori-Adusbef, una stangata pari a 1.394 euro a famiglia nel 2014. Il salario netto mensile è rimasto stabile a 1304 euro, il valore più basso dal 2008. Infine c’è il debito pubblico che ha raggiunto un nuovo record: 2.104 miliardi di euro.

Dati che confermano la tesi dell’Ilo: il combinato disposto di politiche fiscali regressive ai danni del lavoro e dei consumi, la recessione e il taglio di investimenti pubblici e privati ha prodotto nuova disoccupazione, calo dei consumi, indebitamento privato, aumento del debito pubblico. Si tratta della più chiara confutazione dell’«austerità espansiva» sostenuta dal 2009 in Italia dai neoliberisti Alberto Alesina e Silvia Ardagna. Insieme all’altrettanto celebre articolo del 2010 «Growth in a Time of Debt» di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff – confutato dal capo economista dell’Fmi Olivier Blanchard per i suoi grossolani errori – hanno legittimato le politiche di austerity fiscale.

Al fondo, questa è la causa della crisi che viene fatta risalire addirittura al 1976. In Italia i salari sono diminuiti a favore dei profitti di 15 punti, dal 68% al 53%, per un totale di 240 miliardi di euro. A questa cifra bisogna aggiungere tutti quelli sottratti negli ultimi 8 anni. È il prezzo della «lotta di classe» praticata dai banchieri e dai governi nell’austerità.