Il tweet di Vernon Reid, chitarrista nero, fondatore dei Living Colour, è perentorio: addio a un grande americano. Poche parole ma emblematiche: non un grande afro-americano ma americano. Amiri Baraka avrebbe gradito. Avrebbe apprezzato quelle parole perché il suo libro sacro uscito nel ’63 a nome LeRoi Jones, Il popolo del blues-Sociologia degli afroamericani attraverso l’evoluzione del jazz (ristampato – ma senza «evoluzione» nel sottotitolo – da ShaKe edizioni nel 2011), proprio a quello puntava. A dimostrare che suoni, modi e stili black avessero influenzato in maniera sensibile la cultura e la storia statunitense nella sua interezza. Proprio quel saggio disvelava, inoltre, come negli Usa la storia dei neri sia andata di pari passo con le spinte evolutive delle loro musiche. In questo, nel modo in cui seppe rappresentarlo, Baraka, soprattutto poeta e drammaturgo, è stato davvero un irripetibile critico musicale, genere in cui eccelleva. Per molti aspetti fu anche un musicista. Capace di versificare seguendo coordinate di senso e suono che hanno anticipato la grande ondata rap di fine anni Settanta.

Per capire meglio si riascolti Black Dada Nihilismus, un poema in musica registrato nel 1965 con l’accompagnamento del New York Art Quartet. Quello è jazz ma è anche hip hop. Oppure si senta A Black Mass, il disco del ’68 con la Sun Ra Myth Science Arkestra, disco totalmente incardinato dentro un’estetica free jazz, genere musicali evolutosi al ritmo delle lotte politiche nere. A Black Mass, uscito per la Jihad (l’etichetta di LeRoi Jones, il nome dice tutto), era la trasposizione discografica di un’omonima opera teatrale in cui venivano rovesciati gli stereotipi dominanti: nero era bello, bianco era il male. Dedicato a Malcolm X a cui Baraka era stato legato da forti rapporti di amicizia e di convinzione politica, il disco venne distribuito negli Stati Uniti attraverso le più radicali librerie nere. Perché questo era Baraka, il poeta di riferimento del Black Power, colui che sulla scia dello slogan di Malcolm X, «con ogni mezzo necessario», era convinto che le poesie potessero uccidere. Che fossero un possibile mezzo di scontro con la struttura di potere bianca. Non a caso fu lui a fondare il Black Arts Movement, ramo artistico del Black Power, celebrato nella poesia Black Art (1965) e fondato subito dopo l’assassinio di Malcolm X, il 21 febbraio 1965. Vi aderirono scrittori e poeti militanti come Maya Angelou, Nikki Giovanni, Jayne Cortez, Sonia Sanchez, Hoyt W. Fuller. Fu un movimento culturale centrale in ambito afro-americano, capace di rappresentare la varietà e fertilità di ambiti letterari neri fino a quel momento ignorati e in grado di sfondare il silenzio delle università. Affiancato dal suo corrispettivo teatrale il Black Arts Repertory Theatre and Scholl (Barts), trasformò Baraka in una potente icona culturale, l’equivalente in ambito radicale di quello che James Baldwin aveva rappresentato per il movimento dei diritti civili.

Comunista, per sua ammissione anti-sionista, dapprima legato alla beat generation e poi affrancatosene per proprie urgenze radicali, seguace di Maulana Karenga, figura centrale del black power che lo indurrà a scegliere un nome africano, Baraka (ameer in arabo significa‘principe’, e barakat ‘colui che è benedetto’ ) fu il primo nel ’64 con lo storico testo teatrale Dutchman a sollecitare (anche nelle recensioni) espressioni come «nazionalismo nero», «estetica nera», «criterio nero». Tutto parte con lui. Da quell’atto unico in due scene che mette in scena un incontro in metropolitana tra un ragazzo nero e una donna bianca, e le dinamiche di seduzione, potere e violenza che ne scaturiscono. Talmente profetico fu quel testo che la radicalizzazione del confronto (già accennata negli scritti/poesie di autori neri come Richard Wright o Langston Hughes) divenne anche autobiografica, con Baraka che lasciò la moglie bianca (si sposerà nel ’66 con Amina), gli amici bohèmien, tentò di cancellare la provenienza culturale borghese (gli studi all’università) e si trasferì ad Harlem.

Da allora ha continuato a infierire sul corpo della cultura dominante americana, scatenando il caos quando – nonostante il mondo politico e accademico l’avesse incoronato poeta laureato – compose Somebody Blew up America, poesia in cui Usa e Israele risultavano coinvolti negli attacchi dell’11 settembre. Inafferrabile anche stavolta. Un grande americano, parola di Vernon Reid.