Ha un titolo programmatico, sia pure redazionale, ed è aperto da una chiara introduzione di Alfonso Berardinelli L’invenzione dell’Italia moderna Leopardi, Manzoni e altre imprese ideali prima dell’Unità (Bollati Boringhieri, «Nuova Cultura», pp. 195, euro 22), il volume postumo che riordina scritti già singolarmente usciti quali prefazioni o in raccolte collettanee a firma di chi non fu soltanto un grande editore ma un fuoriclasse della storiografia come della saggistica letteraria, Giulio Bollati (1924-’96), nonostante la relativa esiguità di una produzione tuttavia culminata in L’italiano. Il carattere nazionale come storia e invenzione (Einaudi 1983), un esquisse di raro equilibrio analitico e precisione filologica dove geografia e storia di lungo periodo si incrociano lumeggiando sia la nozione primordiale e immediatamente controversa di italianità sia le dinamiche recenti della sua diffusione e ricezione. Tanto che è impossibile oggi leggere la saggistica di Bollati, o calibrarla su un cursore cronologico che muove dai primi anni sessanta e tocca la fine del secolo, senza riandare all’assunto di quell’aureo libretto dove si spiega come e qualmente l’italianità del ceto intellettuale e delle classi dirigenti post-unitarie sia un falso mutante, cioè un costrutto la cui ambivalenza sintetizza, a ogni passaggio di fase, rinnovamento (parziale) e conservazione (sostanziale).

In breve, per Bollati italianità e opportunismo o trasformismo sono una cosa sola e pertanto egli ne deduce che la medesima italianità risponde solo parzialmente e ambiguamente alle sfide o alle occasioni della modernità. L’invenzione dell’Italia moderna comprende cinque contributi, databili fra il ’65 e il ’95, e i primi due celeberrimi: l’uno (già nella «Nue» di Einaudi ’68, poi nel volumetto intitolato Giacomo Leopardi e la letteratura italiana, Bollati Boringhieri 1998) è una introduzione alla Crestomazia italiana. La prosa in cui Leopardi, col soccorso e l’esempio di Pietro Giordani, denuncia l’assenza di una lingua consona alla modernità scientifica e/o filosofica e perciò sceglie il modello esclusivo di Galilei; l’altro saggio, Le tragedie di Alessandro Manzoni (ancora nella «Nue», ’68), è l’inventario di un teatro che legge nella violenza dei conflitti storici e nella unilateralità del potere dall’alto la tabula rasa di un paese dominato dalla «feroce forza» che si arroga volta a volta il nome di diritto. Si direbbe invece uno spoglio terminale della lezione dei maestri illuministi La prosa morale e civile (del ’95, poi in Da Verri a Cattaneo, Bollati Boringhieri 1997), che così Berardinelli riassume: «Gli intellettuali italiani hanno fallito nel loro rapporto con la modernità sociale e politica. Non sono riusciti a dare un vero e utile contributo ai ceti dirigenti aumentandone la capacità di governare lo sviluppo economico e i conflitti sociali. […]Le Rivoluzioni, quella industriale inglese e quella politica francese, furono accolte come una minaccia all’identità di una tradizione italiana sentita come sublimità estetica e morale».

Quanto a questo, sono paradigmatici, ancora su Manzoni e su Vittorio Alfieri, i due saggi centrali, i più brevi e pregnanti ma anche fra i meno rammentati, che Bollati scrisse per il bellissimo volume collettivo L’albero della Rivoluzione. Le interpretazioni della Rivoluzione francese (a cura di Bruno Bongiovanni e Luciano Guerci, Einaudi 1989). Se quello su Manzoni torna alle opere di un ex giacobino presto divenuto cattolico e liberale, convito del primato della unità nazionale sulla uguaglianza sociale, persuaso che i valori di libertà/giustizia/umanità proclamati dalla Grande Rivoluzione fossero stravolti da pratiche politiche irreligiose o dalla illusione di un autogoverno estraneo alla verità della fede, viceversa le pagine su Alfieri (tanto più rilevanti perché dedicate a un autore oggi così poco frequentato) vanno diritte al frangente capitale. Perché Alfieri è un nobile «spiemontizzato», un apolide pervaso dal culto della libertà e da un odio titanico per la tirannia, egli è l’uomo austero e sdegnoso che ha scritto il Saul e la Mirra ma anche due trattati dal titolo che parrebbe inequivoco, Del principe e delle lettere e Della tirannide, entrambi pubblicati nel mirabile anno 1789: c’è di più, perché il 14 luglio Alfieri è presente ai fatti e scrive di getto un’ode entusiasta, Parigi sbastigliato. Come può, si chiede Bollati, divenire in poco d’ora un nemico giurato della Rivoluzione («giunto è il regno dei cenci»), come può costui infierire sui giacobini e su Napoleone nei modi isterici e atrabiliari che conosciamo dalle Satire e soprattutto dalle pagine del Misogallo?

Non basta a Bollati ricordare, con gli ultimi passi della autobiografia alfieriana, la Vita scritta da esso, che i sanculotti gli hanno confiscato le creature e le cose più amate, vale a dire i cavalli, i volumi dell’opera omnia in corso di stampa da Didot e persino la pensione dell’amante in carica, la contessa d’Albany vedova del pretendente Stuart al trono inglese. Di questo libertario già nobile che la calamità dei tempi ha fatto retrocedere al disprezzo tutto nobiliare per la borghesia e per la cosiddetta plebaglia, Bollati fa un caso di antropologia nazionale e di lì, ancora una volta, deduce i tratti della ambiguità o, anzi, di una vera e propria ambivalenza: «Va dunque guardata più da vicino – scrive lo studioso – la singolarità costituita da un ‘repubblicano’, da un rivoluzionario, da un tirannicida, che dopo una prima adesione […]si ritrae inorridito da una repubblica, da una rivoluzione, da un tirannicidio passati dalla teoria, o dalla letteratura, nella pratica». Come ne fosse l’archetipo secolare, la italianità di Alfieri o, che è dire lo stesso, la sua modernità realizza un ossimoro: al cospetto dei fatti squadernati dalla dinamica storica, lo scrittore adultera il senso del proprio estremismo giovanile e lo traduce in un caso di «rivolta nobiliare», la medesima che gli fa sdegnare la Rivoluzione vera, come fosse un tradimento degli ideali, e gli fa insultare con veemenza xenofoba i rivoluzionari in carne e ossa.

Tale è la futura icona del Risorgimento, il maestro venerato da Foscolo e Mazzini, e cioè un rivoluzionario che alla prova dei fatti diventa ipso facto un reazionario: nel nobile e pallido volto che conosciamo da una tela del Fabre, nello sguardo tetro e impaziente del fiero Allobrogo è scolpito alla maniera di un oroscopo il reiterato fallimento della Rivoluzione italiana. Se Alfieri è il primo, è dunque il primo di una lista più che centenaria. Quando i redattori della rivista «Idra» (4, 1991) nel corso di una lunga conversazione chiesero, in proposito, a Bollati di rivolgere lo sguardo al presente, la risposta, com’era nel suo stile, fu pacatamente micidiale: «Nel suo libro sulla storia italiana del secondo dopoguerra Paul Ginsborg si stupisce che in Italia sopravviva solo il culto della famiglia: […]gli italiani hanno fatto per certi versi dei passi enormi sulla via di quella che potremmo definire, tanto per intenderci, ‘americanizzazione’, a questo punto non ha corrisposto né un adeguamento della cultura antropologica di base né un adeguamento della cultura politica. Sono gli stessi italiani di prima, che hanno soltanto due automobili, la casa al mare…» È perciò che anni dopo uno storico parlerà dell’Italia come di un paese mancato.