Nelle contraddittoria scena inaugurale della filosofia, Adriana Cavarero si è avventurata più volte. Lo ha fatto sempre con un’insolita ed elegante solidità di pensiero. Anche Inclinazioni. Critica della rettitudine (Raffaello Cortina) corrisponde ad un’operazione che sfugge al già detto, per inchiodare le crepe del tradizionale pensiero filosofico così preso dall’autocelebrazione di se stesso. In tal senso, il libro si dimostra impeccabile e capace di coniugare la sapienza delle fonti con uno sguardo inedito su alcuni luoghi significativi di cui l’autrice si serve con dovizia. Ciò che però risulta ancora una volta stringente, è la traiettoria dello sguardo: di filosofa della differenza sessuale che interloquisce con il dibattito internazionale. Raccontare la storia dell’inclinazione e della rettitudine determina paradossalmente un movimento più plastico: l’immersione, ancora una volta, in una scena che ha prodotto e sostenuto il soggetto autocratico e violento. Quello che drizza orgoglioso nell’asse verticale delle originarie compulsioni filosofiche. Significa dunque sondare con la capacità endoscopica di un’esploratrice esperta di fondali e con la vista aguzza di chi possiede un bisturi e si appresta ad affondarlo, di nuovo.

Cavarero illumina la postura del soggetto, osservando come la diffidenza storica della filosofia verso l’inclinazione abbia corrisposto alla comparsa dell’uomo retto, un io centrale nel teatro filosofico «che si attiene alla verticalità dell’asse rettilineo che funge da principio e da norma della sua postura etica». In questo senso nella storia del pensiero e della rappresentazione si può parlare, e a più riprese, di una postura geometrica verticale, quella cioè che non può tollerare l’esistenza di qualcosa fuori di sé. Tutto ciò va a discapito di un «modello relazionale» che abita invece la storia un po’ sfortunata e spesso fraintesa dell’inclinazione. In tal senso, Cavarero propone di sostituire la decostruzione del soggetto con l’ipotesi appunto di inclinarlo, meglio se verso l’altro. In effetti, è un tentativo che trafigge il solipsismo del teatro filosofico ma anche la discussione di un’interessante mediazione geometrica che visivamente e teoricamente riesca a rappresentare la postura di un soggetto che entra in crisi proprio per la comparsa dell’inclinazione.

Il catalogo è assai ricco, da Platone a Kant passando per Proudhon, Canetti e Lévinas, la storia della rettitudine si configura come un’apprensione verso la perdita e il declino della propria verticalità. Spacciata per acquisizione di autonomia e senso di responsabilità verso gli altri, questo asse verticale viene mostrato in tutta la sua violenza ontologica e politica. Se la critica femminista ha più volte marcato e poi smontato la protervia del soggetto unico maschile, è anche vero che Cavarero propone di indagare una geometria etica dotata di un’altra intenzionalità simbolica e pratica, quella appunto dell’inclinazione.

Dileggiata, fraintesa e arginata dalla storia della filosofia perché non considerata all’altezza della speculazione, l’inclinazione è infatti eminentemente relazionale e racconta una scena più cogente: quella della condizione umana. Spogliata dallo stereotipo oblativo che la vorrebbe un’attitudine femminile possibilmente de-erotizzata e vocata all’accudimento, l’inclinazione è legata ad un pensiero di nascita in cui ci sia posto per l’amore e l’attenzione verso il vulnerabile, l’inerme. La domanda che ci si potrebbe porre è: cosa accade dopo che si è intercettato il tratto radicale dell’inclinazione? Cosa succede precisamente quando nella tavola leonardesca che Cavarero prende come esempio, titolata Sant’Anna, la Madonna e il Bambino con l’agnello, si mostra questa postura etica imprevista?

L’asimmetria di una relazione materna che non finisce mai di essere rammentata, o la perturbazione di riconoscerle una forza genealogica che andrebbe agita costantemente? Se infatti il quadro indica una torsione simbolicamente già avvenuta, c’è qualcosa di più che salta fuori. E, saltando fuori, racconta il fallimento di un soggetto immune da ogni possibile interferenza con l’esterno. Così, se nel quadro non c’è traccia di homo erectus che vorrebbe tutto a propria misura, viene a configurarsi la possibilità di piegarsi, nel corpo e nello sguardo, dinanzi all’esposizione della vulnerabilità; come fa la madre nei confronti del figlio.

L’io prediletto dalla tradizione filosofica ha allestito così numerosi luoghi coercitivi facendo sistematicamente corrispondere l’inclinazione ad un disordine, del corpo e del sentire, che andava auto-moderato, raddrizzato o più semplicemente ignorato. In tutto ciò, pochissimi sono i passaggi in cui l’inclinazione invece ha avuto udienza, insieme al pensiero arendtiano di nascita anch’esso disturbante per una storia filosofica più preoccupata della morte.

Se fosse possibile, muovendoci nella storia delle rappresentazioni che il volume di Cavarero sollecita, occorrerà dire che nel presente le posture dell’inclinazione sembrano confondersi ulteriormente. Valutandone la duttilità infatti, viene in mente che la contemporaneità somigli di più alla vicenda di Narciso, quando cioè l’io della tradizione filosofica collassa nell’ambiguità.

Sembra infatti che Narciso non solo si inclini ma addirittura si sporga all’estremo, peccato che lo sappia fare solo su se stesso. Anche quando accanto gli compare Eco. Così per congedarsi dalla storia patriarcale della rettitudine, bisognerà distinguere la qualità delle inclinazioni e prestare attenzione all’efficacia delle relazioni che si vorrebbero costruire. Forse considerando che quel termine di vulnerabilità conduce ad un’etica più vivibile e veritiera se radicata in una prospettiva che sfugga il pericolo di chinarsi solo su se stessi. È in un solco simile che va ripensato il quadro leonardesco, nella libertà di una postura che sappia scalzare l’ambiguità, uno dei nodi più complessi con cui ancora abbiamo a che fare.