Quarticciolo a lutto per la morte di Remo Capitani, mitico Mezcal di Lo chiamavano Trinità, ricordate la battuta «Questo mi è nuovo, non l’ho mai picchiato prima»?, e fratacchione protagonista come Ray O’Connor del cultissimo Fra Tazio da Velletri, ma anche militante comunista e giovanissimo partigiano della banda di Franco Napoli detto «Felice», amico del celebre Gobbo del Quarticciolo, cioè Giuseppe Albano, suo vicino di casa quando abitava in Via dei Ciliegi e testimone di quel che gli fecere i fascisti quando ritornò da Via Tasso. Remo se ne va a 87 anni nella sua Roma dove era nato, con qualcosa come 300 film sulle spalle, tra lavoro di stuntman, di caratterista in peplum e western, anche di coprotagonista al tempo dei decameroni, e con molti segreti della Banda Felice che porterà per sempre con sé. La vita se l’era arrischiata di brutto almeno un paio di volte durante l’occupazione nazista e nella Roma del 1943 e tra le poche cose che raccontava di allora c’era proprio la storia di come riuscì a salvarsi dalla fucilazione quando finì prigioniero dei tedeschi. Per il resto rimandava al libro del suo capo partigiano, «Villa Wolkonskj», dove secondo Remo era spiegato tutto.

Del cinema che aveva fatto, invece, parlava tantissimo, dagli inizi alla fine degli anni ’50 fino a La passione di Cristo di Mel Gibson, dove portò la sua bella faccia da brigante e la sua agilità da cascatore. Purtroppo, sarà difficile trovare qualcuno che abbia dei ricordi così nitidi e divertenti di quel periodo. Aveva cominciato come cascatore, diceva, già a sei anni, e come cavallaro su Ben Hur, andando in Jugoslavia a cercare i cavalli bianchi per la biga di Charlton Heston e neri per quella di Stephen Boyd. Ma ricordava anche di quando nelle triremi del film, insieme a decine di comparse e amici scritturati come vogatori, si ritrovarono ad Anzio col mare grosso. E, a parte il fatto che pochi sapevano nuotare, anche se avevano giurato il contrario, un po’ tutti avevano mangiato troppo alla mensa della Metro Goldwyn Mayer e il mare si alzava sempre di più. In Totò contro il Pirata Nero fa un pirata guercio e senza barba, mentre ne Gli onorevoli fa lo stuntman come doppio di Gino Cervi. Lo fece anche per Orson Welles, che aveva più o meno il suo stesso fisico, ma era meno agile, per Una su tredici, dove Welles interpretava il Dottor Jekyll e scompariva in una botola. Ma è nello spaghetti western che buca lo schermo come oste, messicano sporco e cattivo, capobanda a cavallo e ogni tipo di ruolo dove dovesse dare o prendere botte. Grazie al ruolo di Mezcal “messicano scaciato, un zozzone bono a gnente”, come diceva lui stesso, in Lo chiamavano Trinità di Enzo Barboni e ai suoi film con Bud Spencer e Terence Hill diventa un caratterista molto richiesto. Ne prende parecchie da Bud in  Dio perdona io… no di Giuseppe Colizzi, dove aveva il ruolo dell’oste. «Siccome dovevo star di spalle dietro a Bud e poi rompere le bottiglie, non potevamo fingere. Così ho detto a Bud di darmela per davvero la pizza, dietro al collo, e pure forte che tanto stavo già a tiro. Poi ho rotto 62 bottiglie vere, visto che quelle finte non erano pronte, senza farmi un taglio.» E’ su quel film che fu testimone di come si formò la coppia Bud-Terence e del perché venne sostituito il vero protagonista, Peter Martell: «Lui se trombava una parrucchiera e qualche fijo de na mignotta l’ha detto alla sua donna e l’ha fatta arrivare in Spagna. Eravamo al Grand Hotel e ho visto tutta la scena. Lui stava tornando dal set, tutto sporca, e stava salendo la grande scalinata dell’albergo. Lei, come lo vede, gli dice un sacco di parolacce, poi inizia a dargli delle borsate. Lui, per evitare una borsata, è scivolato e si è rotto una gamba. È stata la fortuna di Terence Hill e la sfortuna di Peter Martell, che era bravo, anche se lo dovevi tene’ a freno, perché beveva. Certo, non quanto Livio Lorenzon, però…».

Il successo di Trinità lancia decisamente Remo nel mondo dello spaghetti western. Fra alti e bassi. Sul set di La belva di Mario Costa ebbe un brutto scontro con Klaus Kinski, che interpretava un bandito erotomane fuori di testa, e seminava davvero il panico sul set. «Sto cornuto! Era proprio una belva, cattivo di animo, io gli ho dato due pizze. L’ho infrociato addosso alle rocce. Insomma, un giorno arrivo a Cammerata Nuova, sul set, erano i primi giorni che giravo, e sento delle urla. Penso che sia il vento, perché lassù tira sempre vento, poi mi avvicino di più al set e sento questo che urla come un pazzo. Ce l’aveva con tutti. Parolacce. E nessuno che gli diceva niente. Allora non ci vedo più. È più forte di me. Non si tratta così chi ti sta dando i soldi, chi ti dà da magna’. C’avevo il winchester, l’ho posato per terra, mi arrampico piano piano verso di lui, con tutti che mi dicevano ‘Stai fermo Remo!’, perché mi conoscevano. Gli arrivo vicino, lo acchiappo per il petto, lui aveva un vestito di scena color crema, lo attacco a una roccia. Gliene ho dette di tutti i colori. Alla fine se ne è andato dal set.». Con Giuliano Gemma gira Amico stammi lontano almeno un palmo diretto da Michele Lupo, dove interpretava il bandito Charro, ebbe un brutto incidente.  «Per colpa di Michele Lupo mi sono bruciato tutte e due le mani in una scena col fuoco. L’avevamo provata prima, sembrava che andasse tutto bene, invece nella scena vera mi ritrovo sulle mani venti litri di bagnacauda. Ho pure dovuto seguitare la scena con le mani fasciate. La notizia andò su tutti i giornali.»

Gira pure un western erotico, Porno Erotic Western, firmato da tal Gerard B. Lennox, che è un rimontaggio con inserimenti hard di un western di Elo Pannacciò dal titolo folle del 1971 Lo ammazzò come un cane… ma lui rideva ancora. Ovviamente Lennox e Pannacciò sono la stessa persona. Remo pensava che il film non fosse mai stato finito e non sapeva nulla della versione porno. « Pannacciò era un simpaticone, aveva l’ufficio ai Parioli, a Piazza Santiago del Cile, mi pare. Diceva qualsiasi cosa con una certa non chalance, anche che non c’era una lira. Ci portava a magna’ a tutti e poi nun pagava. Ogni tanto, però, ti dava qualcosa. All’ultimo mi ha dato una cambiale. L’ho messa dentro un quadruccio». Con Tanio Boccia, re delle serie B gira un paio di western. Diventa coprotagonista ai tempi dei decameroni col nome di Ray O’Connor. Lo troviamo nel delirante Fra Tazio da Velletri, ma il regista lo fece doppiare male e spinse troppo sull’erotico un film che doveva essere principalmente comico. Lo ritroviamo come fratacchione anche in Canterbury proibito, Finalmente le mille e una notte. Seguita a lavorare nel cinema in piccoli ruoli in produzioni americane, come Gangs di New York di Martin Scorsese e La passione di Cristo di Mel Gibson. Simpatico, romanissimo, sempre sorridente e pronto alla battuta, Remo è uno dei grandi ultimi protagonisti di un cinema che sta ormai scomparendo sempre di più. I funerali lunedì mattina alla chiesa del Quarticciolo.