«In laboratorio tutti erano dei potenziali nemici. I colleghi si facevano la guerra a vicenda. Facevano di tutto per complicarsi la vita». Così Massimo Sandal racconta un mondo accademico che stravolge psicologicamente chi ne fa parte e dove si è pronti a tutto per sopravvivere. Affermato giornalista scientifico e scrittore (La malinconia del mammut, Il Saggiatore), Sandal ha deciso di salvarsi da tutto questo, lasciando alle spalle una carriera da ricercatore in Biologia molecolare a Cambridge. Il suo, però, non è un caso isolato.

Secondo un sondaggio di Nature del 2019 condotto su 6.300 dottorandi di tutto il mondo, un ricercatore su tre soffre di ansia, depressione e disturbi alimentari. Problematiche che spesso non compromettono «soltanto» la salute dei ricercatori, ma anche la loro produzione di conoscenza: quella che chiamiamo Scienza.

«UNA MIA COLLEGA era traumatizzata perché avevano finto di aiutarla per poi rubarle i dati» – racconta Sandal – A un ragazzo che lavorava con me avevano appositamente dato un software difettoso. E la cosa peggiore è che meccanismi come questi sono completamente normalizzati». Massimo è riuscito ad allontanarsi da questo mondo, ma solo dopo aver capito di aver toccato il fondo. «Un giorno mi sono svegliato e ho detto: la faccio finita. Poi mi sono guardato allo specchio e mi sono chiesto cosa stessi facendo. Sono scoppiato in lacrime».

RICERCATORI, assegnisti e dottorandi si ritrovano spesso sommersi da un ecosistema complesso e controverso. Per comprenderlo, abbiamo deciso di partire dal modo stesso in cui viene vista la figura dello scienziato. Adamo (nome di fantasia) è un ricercatore in filosofia della scienza di un’università del Nord Europa. Qui ha sperimentato sulla propria pelle il peso di questo ruolo. «Se non sei disposto al sacrificio significa che questo lavoro non fa per te: ti vengono a dire che ti manca il fuoco della ricerca».

Lo scienziato per eccellenza dovrebbe, quindi, incarnare la figura dell’eroe e del martire al servizio della conoscenza, «ma è tutta una scusa per farti lavorare senza sosta».

AD ALIMENTARE questi meccanismi si trovano una grande precarietà e incertezza, tipiche del mondo accademico. «Gli assegni di ricerca sono quasi sempre annuali e non puoi sapere cosa ti attende dopo». Per questo bisogna essere disposti a spostarsi in continuazione, mettendo il lavoro davanti a tutto il resto: rapporti sentimentali, amicizie, famiglia. «Due mie relazioni sono finite a causa dei miei trasferimenti per lavoro. Oltre a tutte le volte in cui ho rinunciato a uscire con gli amici e ai piaceri della vita» ammette Adamo.

Secondo Nature il 76% dei dottorandi lavora ben più delle canoniche quaranta ore a settimana, ma permane la sensazione di essere sempre un passo indietro rispetto ai colleghi. «E allora senti di non essere all’altezza, tutti sembrano più bravi di te. Ti senti un nano da giardino circondato da giganti». Sandal racconta di come abbia sofferto della sindrome dell’impostore, ovvero l’incapacità di accettare i propri successi e il terrore costante di essere smascherati. La paura che tutti si accorgano che non sei tu a meritare quel posto.

A ESSERE nel pieno di queste difficoltà è Elisa, che dopo aver studiato biologia della nutrizione in Italia è volata all’Università di Lancaster per una borsa di dottorato. «In effetti lavoro tantissimo, anche se potrei evitare di farlo, a costringermi è il continuo confronto con gli altri». Anche per Elisa tutto questo sforzo, però, sembra non essere sufficiente. «Una volta sono scoppiata a piangere dopo aver visto una conferenza di una dottoranda mia coetanea che aveva tantissimi dati e pubblicazioni. Mi sono chiesta perché, in un futuro, dovrebbero scegliere me». Questo episodio l’ha fatta riflettere e si è accorta che per fare ricerca bisogna essere capaci di sopportare una pressione molto forte. «In quel momento mi sono chiesta se volessi fare davvero questo lavoro in futuro. Ora non ne sono più sicura».

CON LO SCOPPIO della pandemia di Covid-19 la situazione per molti ricercatori è ancora peggiorata. Progetti rallentanti, riunioni e decisioni importanti posticipate hanno alimentato il senso di inadeguatezza e peggiorato le loro condizioni di salute mentale. Elisa ha iniziato il dottorato pochi mesi prima del fatidico marzo 2020: «Sono rimasta da sola per cinque mesi senza poter entrare in laboratorio e quando sono tornata ho dovuto cambiare il mio progetto. Non vedevo davvero via d’uscita».

Come se non bastassero i laboratori chiusi e la comunicazione dietro uno schermo, in lavoro agile anche gli orari, già flessibili, sono diventati inesistenti. «Il carico di lavoro è aumentato ed essendo online le conferenze sono quasi raddoppiate». Racconta Adamo: «Parallelamente la qualità è diminuita, anche solo per la parte della didattica». Il lavoro da remoto ha contribuito a provocare ulteriore ansia, impedendo il confronto diretto con i supervisori e lasciando i dottorandi abbandonati a loro stessi.

TRA I FATTORI che incidono pesantemente sulla salute mentale dei borsisti si annovera anche il rapporto con i propri supervisori. O, in buona parte dei casi, sarebbe meglio parlare del mancato rapporto con loro. Infatti, circa la metà dei dottorandi intervistati da Nature vede il proprio «capo» meno di un’ora a settimana. Sandal ricorda che il suo supervisore era sempre assente e lasciava lui e i suoi colleghi a loro stessi: «Veniva in ufficio una volta al mese, chiedeva come stesse andando e poi spariva. Sapeva che ero depresso, ma in due anni si è fatto vivo soltanto quando ho deciso di abbandonare la ricerca perché non ce la facevo più».

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IN QUESTO STRANIANTE mondo accademico, gli orari infiniti, le pressioni psicologiche e l’estrema competitività sono finalizzati alla pubblicazione di articoli scientifici. È così che il lavoro si trasforma in una corsa, spesso neppure per arrivare all’eccellenza, ma per rimanere a galla nella cultura del publish or perish, letteralmente «pubblica o muori». Una mentalità che si rispecchia anche nel linguaggio utilizzato: «Non si parla mai di lavoro di qualità, ma di essere produttivi e competitivi – racconta Adamo – In un ambiente simile, l’esperienza dei ricercatori si trasforma in una lotta in cui si è tutti nemici e non esiste trasparenza: È un mors tua vita mea, veramente lo stato di natura di Hobbes».

E tutto sembra essere lecito, quando si tratta di arrivare primi. Da quando ha iniziato il dottorato, Elisa è diventata diffidente nel leggere i risultati pubblicati sui paper scientifici: «Mi sono accorta di quanto sia semplice falsificare i dati, soprattutto se sei motivato dalla pressione di dover pubblicare a tutti i costi».

UNA SIMILE ANSIA impatta sulla conoscenza che viene prodotta perché se si è forzati a produrre dati ne risente per prima la loro qualità. Ad esempio, uno dei pilastri del metodo scientifico è la riproducibilità, ovvero la possibilità di replicare le fasi di uno studio per ottenere gli stessi risultati.

Ma se le riviste sono interessate a pubblicare solo risultati innovativi, nessun ricercatore sarà motivato a riprodurre e controllare esperimenti già fatti. Così viene a mancare un elemento fondamentale per avanzare nella ricerca e il rischio è che le incongruenze di studi non riproducibili si scoprano soltanto dopo anni di investimenti sprecati.

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UNO STUDIO di Nature del 2011 ha rivelato come il 43% degli articoli su oncologia, malattie cardiovascolari e salute femminile non siano replicabili. Ma non basta. I risultati, oltre che innovativi, devono essere positivi: non si pubblica un esperimento fallito o dati che non confermano la tesi iniziale, eliminando sistematicamente una parte essenziale del modo di fare scienza. Il Journal of Negative Results è stato fondato proprio per compensare questi meccanismi: «È vero, esiste questa rivista – racconta Adamo – Ma è vista come un’onta da qualunque ricercatore. Nessuno vuole pubblicarci».

«PER MIGLIORARE questa situazione bisognerebbe cambiare tutto, a partire dalla retorica dello scienziato-eroe». Secondo Adamo è «una figura mitologica che agisce per abnegazione e pura passione e che non può sbagliare, perché se sbagli sei un fallito». Sarebbe importante normalizzare e implementare i sistemi di supporto psicologico, spesso inadeguati.

Solo il 26% dei dottorandi che ha cercato aiuto nella propria istituzione lo ha effettivamente trovato.

«All’inizio ero scettico, poi ho deciso di provare e mi ha aiutato molto – continua Adamo – Ma tutto a mie spese: me lo sono potuto permettere perché potevo contare sull’aiuto dei miei genitori». Anche Elisa crede che bisognerebbe incentivare e rendere gratuita la terapia sin dai primi anni di studi. «Per me è stata fondamentale per comprendere che non posso pretendere troppo da me stessa».

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A ESSERE NORMALIZZATO,
però, non deve essere soltanto il percorso psicologico, ma anche la necessità dei momenti di pausa e condivisione. «Bisogna smettere di incoraggiare quei comportamenti che sembrano virtuosi, come il continuo lavoro, ma che sono solo dannosi per la salute» continua Elisa. Per farlo bisognerebbe garantire una maggiore stabilità lavorativa ai ricercatori, aumentando i finanziamenti e ottimizzando quelli già esistenti. Al contrario «ci si ritrova spesso a usare il tempo finanziato da fondi per chiederne altri – osserva Sandal – Tutto questo è uno spreco enorme di risorse, non soltanto economiche, ma anche umane e intellettuali».

Agire sulla continuità è fondamentale: «La prima cosa da fare è valutare programmi che diano prospettive a lungo termine». Ma nulla di questo è sufficiente se il cambio di rotta non prevede un cambio radicale di prospettiva: «Ci vuole una transizione da un mindset competitivo a uno collaborativo». A trarne vantaggio sarebbe la salute mentale di chi fa ricerca, ma anche la produzione di conoscenza. «La gente produrrebbe tre volte tanto in un ambiente più collaborativo. E se mi avessero aiutato, il mio progetto, come quello di molti altri, non sarebbe naufragato».