[ACM_2]«In coscienza non posso», lo dice chi rifiuta ciò che reputa moralmente inaccettabile. L’obiezione di coscienza è prevista per gli operatori sanitari nell’art.9 della legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza. I ginecologi che oggi si avvalgono di tale facoltà sono circa i ¾ dei ginecologi italiani (69,3%). Il consiglio d’Europa ha valutato eccessivo questo dato e ci ha condannati per aver discriminato le donne e leso gravemente i loro diritti.
I medici che si sono dichiarati obiettori, a cinque anni dall’applicazione della 194, erano il 59,1%, un dato che dopo 30 anni più o meno persiste, e in qualche caso diminuisce, ma prevalentemente nelle Regioni con un sistema sanitario completo e sviluppato. Mentre nelle Regioni dove la sanità è male organizzata e deficitaria gli obiettori crescono in misura abnorme fino a toccare punte dell’88,4 %. E sono le stesse Regioni che non garantiscono i Lea (livelli essenziali di assistenza), per gran parte commissariate per problemi di bilancio, dove i malati registrano i più alti tassi di mobilità. In 30 anni i ginecologi obiettori sono cresciuti mediamente del 17.3 %, ma se analizziamo i dati ci accorgiamo che in alcune Regioni questo dato si raddoppia lasciando pensare che, a scala nazionale, il grosso degli obiettori si concentri proprio nelle Regioni più problematiche dal punto di vista sanitario. E’ plausibile che in moltissimi casi l’obiezione non riguardi la loro coscienza, ma probabilmente la salvaguardia del ruolo professionale in contesti sanitari ostili. Se ciò fosse vero, come pare, dovremmo includere tra i comportamenti difensivi degli operatori, coloro che obiettando contro l’ivg: si difendono da disfunzioni, quindi da assessori e da direttori che non garantiscono le giuste condizioni di lavoro.

Se ammettiamo l’obiezione opportunistica accanto a quella legata alle convinzioni personali, il discorso va allargato e le responsabilità da tecniche diventano politiche. Questo è il senso della testimonianza drammatica di Rossana Cirillo, una ginecologa dalla parte delle donne. Contro le sue idealità, dopo 25 anni di ivg, è stata costretta per sopravvivere professionalmente a dichiararsi obiettrice (la Repubblica, 15 marzo).

Personalmente rispetto e difendo il principio dell’obiezione di coscienza e non avrei nessuna difficoltà a ricorrervi se fossi chiamato a scegliere tra certi obblighi e le mie convinzioni morali. Più volte ho invitato pubblicamente gli operatori della sanità a fare obiezione di coscienza nei confronti di quelle politiche sanitarie palesemente lesive di deontologie, diritti, competenze, prerogative professionali. Nel caso dell’ivg, l’obiezione pone alla sanità pubblica, il problema di come difendere in ogni caso i diritti delle donne. L’art.9 della legge 194, prevede che il personale che intende obiettare dichiari formalmente la sua volontà, quindi considera l’obiezione come un diritto dell’operatore ad avere le proprie convinzioni e non già, come prima della modernità, un dovere imposto da un principio normativo superiore. Ma l’art.9 non rinuncia ad avvalersi del dovere dal momento che lo ricolloca a livello di coloro che hanno delle responsabilità gestionali, direttive o politiche. La legge è chiara: costoro devono assicurare l’ivg e «la Regione ne controlla e garantisce l’attuazione…». Per cui mentre la legge autorizza l’obiettore in base alla propria coscienza a non rispettare un principio di legalità nello stesso tempo salvaguarda tale principio, stabilendo dei doveri, quindi degli obblighi, posti in capo a delle figure responsabili.

Nel caso in cui sussistono forme di obiezione strumentali, si commette un reato. Se poi le obiezioni strumentali come nel nostro caso, sono talmente numerose da impedire il rispetto dei diritti , il reato diventa di massa perché per motivi di opportunismo, si danneggiano in modo grave centinaia di migliaia di persone. Ma se i motivi strumentali sono causati da coloro che non organizzano i servizi necessari , violando così i loro doveri istituzionali, in questo caso gli obiettori di fatto non sono i ginecologi ma gli assessori regionali e i direttori generali delle asl, senza che nessuna norma li autorizzi ad esserlo. Il problema da tecnico, limitato ai ginecologi, come ha fatto intendere la ministra della sanità e la commissione affari sociali della camera con la sua risoluzione, diventa politico e come tale andrebbe affrontato.

In che modo? Cinque proposte:

  1. In sanità negare i diritti e non gli sprechi è immorale e illegale, quindi reato. Le Regioni che disattendono l’applicazione della legge 194 vanno denunciate e commissariate perché i reati vanno perseguiti. Nel caso della 194 si tratta di nominare un commissario straordinario ad hoc. La legge 400/88 recita: «Al fine di realizzare specifici obiettivi deliberati dal Parlamento o dal Consiglio dei ministri (…..) può procedersi alla nomina di commissari straordinari del Governo».
  2. Le Regioni hanno il dovere di garantire con i servizi i diritti sanciti dalle leggi. I servizi devono essere i più adeguati alle necessità degli utenti e concepiti in modo da non depauperare le professionalità. Per quanto riguarda la legge 194, si tratta di istituire in ogni azienda sanitaria il “dipartimento per la salute della donna” superando così vecchie concezioni Onmi (opera nazionale materno infantili). I dipartimenti per la salute della donna sono costituiti dai servizi territoriali e da servizi ospedalieri, sono una unica entità operativa, con un unico organigramma e gli operatori che ne fanno parte operano in regime di mobilità interna, ognuno di loro accede in modo programmato per quota oraria settimanale ai vari sottosistemi del dipartimento. Non devono più esistere ginecologi che fanno solo ivg , o solo consultorio, o solo ospedale o solo ambulatorio.
  3. Verifica di tutti coloro che si sono dichiarati obiettori. L’art.9 della 194 prescrive: «L’obiezione di coscienza si intende revocata, con effetto, immediato, se chi l’ha sollevata prende parte a procedure o a interventi per l’interruzione della gravidanza previsti dalla presente legge..». Non è più tollerabile la doppia morale di chi obietta nel pubblico e esegue ivg nel privato.
  4. E’ innegabile che se si ragionasse nella logica dei carichi di lavoro tra obiettori e non obiettori vi è oggettivamente una disparità prestazionale. Ciò nonostante non troverei giusto differenziare i trattamenti tra obiettori e non obiettori discriminando gli operatori per le loro convinzioni personali. Troverei giusto però che le loro prestazioni fossero per lo meno equilibrate. Come? Applicando alla lettera l’art.9 della legge 194 : «L’obiezione di coscienza esonera il personale(…) a determinare l’interruzione della gravidanza, ma non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento». L’obiettore è tenuto a garantire comunque l’assistenza necessaria. In termini dipartimentali ciò vuol dire qualcosa che assomiglia ad una compensazione organizzativa, quindi si tratta di impiegare gli obiettori comunque nei consultori, negli ambulatori polispecialistici, nelle scuole, nelle comunità partecipando a tutte le strategie dipartimentali.
  5. Infine vorrei rimarcare con forza, rivolgendomi soprattutto agli obiezionisti che le prime persone che vorrebbero “obiettare” contro la necessità di abortire sono le donne. Non si obietta liberamente e responsabilmente contro questa necessità a volte subita, non voluta, o accidentale, al di fuori di politiche di informazione contraccettiva, di educazione sessuale, di counseling, di crescita culturale, di educazione sessuale nelle scuole, di lotta alla violenza e alle discriminazioni. La grande priorità che deve unire obiettori e non obiettori, resta la prevenzione dell’aborto intesa non come la intendono molti obiezionisti, che tentano di convincere la donna in cinta a non abortire, ma come formazione alla scelta sessuale responsabile, libera e consapevole. Esattamente come dice la legge.