Aleksandar Vucic non è soltanto il primo ministro serbo eletto con più voti nella storia post-miloseviciana del paese. È anche un ex esponente del Partito radicale, la formazione dell’ultradestra fondata da Vojislav Seselj – che durante le guerre balcaniche comandò squadracce paramilitari – ma dalla quale si è poi separato il Partito progressista di cui attualmente fa parte. Va da sé che, dato che nei Balcani capita spesso che il passato proietti ancora la sua ombra sul presente, la visita che ieri Vucic ha compiuto a Sarajevo, la prima all’estero da quando ha assunto la carica di capo del governo, forte del 48% incassato al recente voto dal suo Partito progressista, ha alimentato sospetti e retroscena. D’altro canto a Sarajevo la memoria dell’assedio pesa ancora.

La stampa sarajevese ha scritto, nei giorni scorsi che hanno preceduto il suo arrivo, che l’agenda del Partito progressista prevede che Belgrado debba espandere i propri confini, incamerando la Republika Srpska, l’entità serba della Bosnia Erzegovina secondo il Trattato di Dayton. Qualcuno ha inoltre mormorato che a suggerire a Vucic di recarsi a Sarajevo siano state l’Europa e la Turchia, orientate a riscuotere punti sul fronte della cooperazione regionale. Bruxelles per dimostrare che l’allargamento ai Balcani non è un progetto sfiorito; Ankara per dare seguito a un percorso iniziato nel 2010, quando mediò – quasi in sostituzione dell’Ue – allo scopo di rimettere in moto i rapporti tra Serbia e Bosnia Erzegovina, fermi al palo da troppo tempo.

Vucic ha seccamente smentito sia quest’ultima che la prima storia. Il Partito progressista non ha mai formulato lo smembramento della Bosnia, ha detto, segnalando che la sua visita è volta, al contrario, a ribadire un impegno al quale la Serbia non intende sottrarsi: garantire l’integrità territoriale del vicino.

A parte questo, la scelta di andare a Sarajevo, che tutto è tranne che una città qualsiasi dei Balcani, evidenzia da parte di Vucic due esigenze. La prima è provare il suo pedigree democratico e la distanza che corre tra il passato e il presente, dunque tra il Partito radicale e il Partito progressista, che s’è staccato dal primo, ormai diventato elettoralmente ininfluente, nell’intento di rompere con l’ultranazionalismo e trasformarsi in partito conservatore moderno.

La seconda necessità del primo ministro serbo è dimostrare a Bruxelles, con cui recentemente sono stati aperti i negoziati di adesione, che la Serbia intende sviluppare rapporti armonici con i propri vicini, evitando litigi, strappi, regressioni. Legato a questo aspetto c’è il rapporto tra Belgrado e Banja Luka, il capoluogo della Republika Srpska. Diversi analisti serbi ritengono che Vucic, da adesso in poi, voglia evitare eccessivi ammiccamenti con i serbo-bosniaci. I principali responsabili, almeno dal punto di vista europeo, della stagnazione che la Bosnia Erzegovina sconta in termini di riforme. Bruxelles ritiene che i loro, tra i tanti veti che fioccano in Bosnia, siano quelli che più intralciano il passo.

A Sarajevo, comunque, ieri s’è parlato soprattutto di economia. Perché in Bosnia (a Sarajevo stessa e soprattutto a Tuzla) negli ultimi mesi è stata forte la protesta sociale contro tutte le mafie che hanno gestito la guerra. Così negli incontri con i politici bosniaci, compreso il premier Vjekoslav Bevanda, è emerso l’interesse reciproco a potenziare i rapporti economici. Tema che Vucic, prima della partenza, aveva posto in cima all’elenco dei motivi che lo hanno portato a scegliere Sarajevo, al di là della simbologia, come meta del suo primo viaggio di stato.

La Bosnia esporta il 9% delle proprie merci in Serbia e sempre del 9% è il peso dell’export serbo verso la Bosnia. Numeri importanti, su cui s’intende lavorare. A conferma che, in questo momento storico, l’economia e i commerci sono gli strumenti che nei Balcani, in ambito di buon vicinato, garantiscono risultati migliori.