Il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov definisce la situazione «fuori controllo» e ne affibbia le colpe all’Europa. Bruxelles, dal canto suo, chiede alle parti di negoziare una soluzione concordata. Washington continua a ventilare, minacciosa, l’ipotesi delle sanzioni. Ma tutti sono impotenti e attendono la resa dei conti in Ucraina. La partita, in questa fase, non si lega alla competizione tra Mosca e l’Ue, per ora vinta dalla prima con gli accordi – 15 miliardi di dollari in prestiti e sconti sull’import di gas – dello scorso dicembre, che hanno scongiurato la bancarotta dell’ex repubblica sovietica, facendole (ri)puntare la bussola sul Cremlino. Stavolta tutto dipende da variabili domestiche. Dal confronto, violento, in corso sulle strade di Kiev.

A partire da domenica, giorno in cui sono scese in piazza almeno centomila persone, la capitale s’è trasformata in un campo di battaglia. Una pattuglia di facinorosi s’è staccata dal corpo della protesta, assiepata in piazza dell’Indipendenza e rilanciata dall’approvazione, avvenuta giovedì, di una serie di misure, promosse dal presidente Viktor Yanukovich, che limitano il diritto a manifestare e impongono potenzialmente il bavaglio alla stampa. Questa frangia radicale di manifestanti, intorno a ulica Grushevskoho, una strada del centro, ha iniziato a lanciare bottiglie incendiarie contro i Berkut, i reparti speciali del ministero dell’interno, che hanno risposto con lacrimogeni e proiettili di gomma. Il Kyiv Post ha rivelato che i violenti fanno capo principalmente a Pravyi Sektor, gruppo formato da sigle della galassia dell’estrema destra. È gente in prima linea dall’inizio delle manifestazioni (21 novembre) contro Yanukovich e il governo. Non attendevano che un pretesto, forte, per scatenarsi. L’hanno trovato con il varo del pacchetto anti-proteste.

Ma a distinguersi, nella mischia, proseguita anche lunedì, sarebbero stati anche alcune decine di titushki, provocatori ingaggiati – così dice l’opposizione – dal governo.
Lavrov, quindi, non ha torto: lo scenario, sebbene ieri non ci siano state violenze di rilievo, sembra prendere una brutta piega. Come evolverà? L’impressione è che si stia scivolando verso lo scontro finale. Diverse le ragioni. Primo: l’opposizione non ha il controllo sugli estremisti di ulica Grushevskoho, che con le loro intemperanze stanno togliendo legittimità alla protesta. Secondo: la soluzione concertata alla crisi non sembra così facile da istruire, dato che i colloqui, in queste ore, non si tengono tra Yanukovich e i capi dell’opposizione, ma tra i delegati nominati dall’uno e dagli altri.

L’opposizione chiede le dimissioni del governo, del presidente e l’azzeramento delle misure restrittive. Pretese eccessive, secondo i più. Yanukovich non intenderebbe accoglierle. Terzo: gli oligarchi, i veri arbitri del sistema economico-politico di Kiev, stanno nuovamente convergendo su Yanukovich, dopo che, quando i Berkut caricarono i manifestanti, il 30 novembre, ne criticarono l’operato. I loro referenti in parlamento hanno votato a favore delle leggi repressive; i loro media stanno coprendo i fatti di Kiev in modo molto meno neutrale. Quarto, infine: oggi entrano in vigore le brutte leggi votate giovedì scorso. Yanukovich dunque può procedere con la repressione. Sempre che, ipotesi da non escludere, al momento in cui andiamo in stampa la prova di forza non sia già scattata.

La domanda che tutti si pongono è se avrà davvero lo stomaco per una cosa del genere. E in ogni caso, sia che prediliga questa opzione, sia che decida di negoziare, il presidente s’è incartato. Ha sì ottenuto i soldi di Mosca, provvidenziali. Ma da qui in avanti sarà sempre più ricattabile. Un’anatra zoppa.