Nel centenario del sequestro e dell’assassinio di Giacomo Matteotti avvenuto il 10 giugno 1924, le parole di ieri del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella provano a restituire un minimo di senso alla lettura del nostro passato individuando i caratteri identitari del fascismo nelle «aggressioni ai lavoratori organizzati nei sindacati e nelle cooperative e alle istituzioni»; indicando il quadro politico dell’epoca con «l’asservimento dello Stato a un partito armato con la complicità della monarchia» e sottolineando come l’impegno politico di Matteotti centrato sul «riscatto dei ceti più poveri» sia stato poi trasfuso nella Lotta di Liberazione e nella scelta repubblicana del 2 giugno 1946. Una schiarita dopo settimane di storia raccontata al contrario fuori e dentro le istituzioni.

Il 30 maggio scorso in Parlamento, nelle commemorazioni ufficiali dell’ultimo discorso di Matteotti, si erano plasticamente manifestate torsioni e rimozioni che ben si adattano alla retorica celebrativa ma mal si conciliano con fatti e significati della storia.
Così a rievocare la figura di Matteotti è stato chiamato Luciano Violante, ieri comprensivo «padre» dei «ragazzi di Salò» dal più alto scranno della Camera ed oggi presidente della memoriale Fondazione Leonardo-Civiltà delle macchine, che nella sua veste “produttiva” è l’azienda strategica nazionale impegnata nella produzione e vendita di armi. E pazienza se il fascismo di Salò era incarnato dagli stessi assassini di Matteotti (a cominciare dal mandante Mussolini) o se l’allora segretario del Partito Socialista Unitario considerava la guerra una calamità contro cui «occorre lo scoppio di violenza. Così ieri per ottenere le libertà statutarie.

Così domani contro il militarismo». D’altro canto Violante non ha lesinato elogi al «grande giurista» Alfredo Rocco autore del codice fascista che, mantenuto incostituzionalmente in vigore nel dopoguerra, ha funestato l’ordinamento della Repubblica e il nostro stato di diritto per decenni; paralleli strabici tra Hitler e Lenin in nome della condanna del «totalitarismo»; reprimende al Partito comunista (quello che lo ha fatto eleggere in Parlamento) nato sul «mito del fare come in Russia». Come se la rivoluzione del 1917 fosse stata un fastidioso incidente della storia e non un evento in grado di caratterizzare «il secolo breve». E come se in mezza Europa non fosse stata l’Armata Rossa a distruggere il nazismo. Il tutto di fronte ai vertici di Stato e governo oggi rappresentati da Ignazio Benito La Russa e Giorgia Meloni, eredi di Giorgio Almirante (che possiamo immaginare non aver biasimato l’omicidio Matteotti negli anni in cui scriveva su «La Difesa della Razza» o in quelli in cui era capo gabinetto del Ministero Cultura Popolare del governo collaborazionista di Salò) e pronti allo stravolgimento della Costituzione antifascista nel nome di esecutivi «decidenti» e soprattutto della fiamma che arde nel loro simbolo di partito.

Non solo in Italia si assiste al rovesciamento e all’uso strumentale del passato. E dunque alla cerimonia per l’80esimo anniversario dello sbarco Alleato in Normandia non è stata invitata alcuna delegazione diplomatica russa ovvero di quel Paese che (con oltre 20 milioni di morti e una Resistenza strenua simboleggiata dalla battaglie di Stalingrado e Leningrado) ha contribuito nel modo più ampio e tragico alla sconfitta del nazifascismo. Al suo posto c’era Volodymyr Zelensky presidente di quell’Ucraina che con Stepan Bandera combatté al fianco di Hitler partecipando attivamente alla Shoah. Una situazione senz’altro insensata ma sicuramente meno di quella già vissuta in occasione della scorsa ricorrenza della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, quando il mancato invito alla Russia segnò il paradosso della celebrazione in assenza dei liberatori.

Così mentre in Italia ha tenuto banco per giorni una surreale discussione sulla X Mas «buona» del pre 8 settembre 1943 (che combatté la guerra fascista al fianco del III Reich) e su quella «cattiva» della Rsi (che impiccava i partigiani agli alberi lungo i viali delle città) il voto europeo evidenzia le ferite inferte al corpo della società dal ripudio delle eredità politico-sociali e costituzionali delle Guerre di Liberazione combattute in tutto il Continente. Un disconoscimento patrocinato da quegli esegeti del modello unico e totale del libero mercato (e della guerra come forma ad esso connessa) che si sono rivelati i più solidi alleati dei partiti post e neofascisti capaci di raccogliere tanto i consensi corporativi quanto i voti della disperazione.

Un contesto, quello odierno, in cui, mentre si discetta di una possibile apertura all’estrema destra delle istituzioni europee, resta scolpito nella pietra il monito di Matteotti del 1924: «Il nemico è uno solo: il fascismo. Con il fascismo non si possono fare trattative né accordi se non rinnega sé stesso. Se non ritorna alla libertà. E quindi è inutile trattare»