Il 27 agosto di un anno fa moriva Giorgio Salvetti. Era un giornalista diverso. Scriveva per il manifesto. Gli articoli che il padre ha ora voluto raccogliere in un libro non sono Giorgio. Sono solo una piccola parte del suo lavoro. Il primo pezzo lo scrisse durante il Giubileo del 2000 dopo aver trascorso un pomeriggio con i pellegrini in piazza San Pietro. «Racconta quello che hai visto, cinquanta righe». Eccole: «Tutto qui? Che bello». L’aneddoto sul suo debutto, quindici anni dopo, lo divertiva ancora.

Non era tutto qui, naturalmente. Voleva solo dire che questo mestiere potrebbe anche essere bellissimo se ci si limitasse a ragionare sulla superficie delle cose. Lui non era così, verrebbe da dire che non era un giornalista. Dopo un breve soggiorno romano Giorgio è cresciuto nella redazione milanese del manifesto.

I libri li distruggeva, li graffiava di note incomprensibili scritte in stampatello, parlava di filosofia del funzionamento dell’universo. Centinaia di pagine, paragrafi astrusi e formule di fisica. Per distrarsi, stava leggendo anche un testo sulla storia della musica progressive italiana. Amava la musica. A Parigi si era fatto fotografare davanti alla tomba di Chopin. Poteva suonare qualunque strumento. Nascondeva la sua bravura per pudore e per non mettere a disagio le persone, quando ragionava lo faceva sempre con delicatezza per non sembrare troppo assertivo. Con la filosofia aveva un conto aperto.

Giorgio era poco concreto, anche a 42 anni, pura astrazione. Col tempo, non per vocazione ma per sentimento, si è appassionato al “sociale”, una semplificazione giornalistica. Si interessava alla vita reale delle persone, in questo era profondamente marxista. Per dovere stava sempre con gli ultimi ma col disincanto di chi sa che non basta questo per sentirsi migliori e mettersi al riparo da nuove amarezze: essere ultimi non vuol dire essere migliori.
Troppo sofisticato e lucido sulle sconfitte della storia per dirsi comunista. «Allora perché non giacobino?», diceva quando pensava al quotidiano dove ha trascorso quasi metà della sua vita, fino all’ultimo giorno, il giorno del suo compleanno. Le ingiustizie lo facevano soffrire. Detta così suona piuttosto banale. Scrivere cinquanta righe sui migranti che affogano, uno, decine di pezzi, – quanti ne avrà scritti? – per lui non era «tutto qui». Picchiava sulla tastiera e poi si alzava stremato. Per un po’ non parlava, fumava, bastava uno sguardo per cogliere il disagio di chi si ostina a guardare sempre in fondo alle cose. «Noi scriviamo, le cose non cambiano». Forse non era adatto per questo mestiere. Forse questo mestiere dovrebbe adattarsi a una persona fragile e forte come Giorgio.

Qualcuno ha scritto che ci si uccide in un accesso di intollerabile lucidità e che gli idioti non si uccidono praticamente mai. Tommaso Di Francesco, condirettore del manifesto, quando l’ha saputo ha gridato una bestemmia: «No, no, no, se ne vanno sempre i migliori».
Ecco, queste sono cinquanta righe. Tutto qui. Giorgio, ti chiedo scusa a nome di tutti.
p.s. – È uscito il libro di Giorgio Salvetti Uno sguardo limpido sull’inizio secolo. 15 anni a il manifesto (edizioni Guerini). È una scelta di articoli di Giorgio, distinti per aree tematiche: l’ambiente, il lavoro, emarginati, condizione giovanile. Seguono alcune testimonianze sulla sua persona. Domani, 27 agosto, alle ore 19, nel primo anniversario della scomparsa, le persone che ne serbano affettuoso ricordo sono invitate alla presentazione del libro che avverrà a Varese presso L’Angola della cupola, pazza Giovanni XXIII, 13 (di fronte alla Brunella). Agli intervenuti verrà donato il volume. Per conferme e ogni comunicazione: sms al 3396770461 o email a guido.salvetti@fastwebnet.it. Una successiva presentazione verrà organizzata a Milano il 26 settembre. Ne verrà diffuso l’invito successivamente.