Il 2014 è un anno cruciale per l’Afghanistan. Perché segna il passaggio dalla prima, lunga parentesi post-talebana – inaugurata manu militari con l’intervento del 2001 guidato dagli Stati uniti – a una nuova fase, i cui contorni sono ancora indefiniti.

Nelle prossime settimane il presidente Hamid Karzai cederà il posto al suo successore, Abdullah Abdullah o Ashraf Ghani; entro la fine dell’anno, con il compimento della missione Isaf, la maggior parte delle truppe straniere lasceranno il paese, completando l’inteqal (la transizione), il passaggio della sicurezza dalle mani degli internazionali a quelle delle forze di sicurezza locali. Come ogni fase di transizione, anche l’inteqal afgana porta con sé molte incognite e molte opportunità.

Le incognite riguardano la tenuta dell’assetto istituzionale, con un governo fragile, corrotto, incapace di soddisfare i bisogni della popolazione; la capacità delle forze di sicurezza di far fronte alla minaccia dei movimenti anti-governativi; lo stallo del processo di pace e di riconciliazione; la dipendenza dell’economia dagli aiuti internazionali; la giustizia che non c’è; i diritti negati, soprattutto per le donne. Affinché la società e il governo afgano riescano a fronteggiare adeguatamente tali sfide, c’è bisogno del sostegno della comunità internazionale. Ma affinché tale sostegno rifletta le aspettative della popolazione occorre voltare pagina, cogliendo le opportunità dell’attuale fase di passaggio.

Fin qui, in Afghanistan la componente civile del sostegno internazionale è stata subalterna a quella militare, che ha prevalso in termini di risorse impiegate e di obiettivi programmatici. Nonostante le ingenti risorse dedicate, lo strumento militare si è rivelato inefficace, perfino controproducente, nel proteggere la popolazione, sconfiggere i gruppi di opposizione armata, consolidare un governo democratico.

Il fallimento del paradigma adottato in Afghanistan – dove i Talebani rimangono una forza tutt’altro che residuale e la percentuale delle vittime civili continua a crescere – dimostra l’anacronismo e la disfunzionalità dell’equazione che in politica internazionale associa realismo e militarismo, l’idea cioè che la sicurezza e la stabilità possano essere garantite e perseguite affidandosi alle armi.

La transizione afgana offre alla comunità internazionale l’occasione di archiviare tale paradigma, in favore di uno completamente diverso, fondato sulla cooperazione, la diplomazia, il multilateralismo, la faticosa ricerca del dialogo e della riconciliazione. Un paradigma che non veda più la politica estera schiacciata o subalterna alla politica della difesa e che non riduca più la politica della difesa alla semplice questione della “sicurezza”. A partire dalla piena attuazione dell’articolo 11 della Costituzione e dal legame che esso stabilisce tra vocazione pacifista e vocazione internazionalista del nostro paese, il governo italiano potrebbe farsi promotore in Europa di questo nuovo paradigma, evitando che la comunità internazionale ripeta i suoi errori o che abdichi alle proprie responsabilità in un momento così delicato per le sorti dell’Afghanistan.

Alla luce di questi elementi di discussione, ci rivolgiamo al ministro degli Esteri, Federica Mogherini – che nel corso degli anni, da deputato, ha dimostrato sincero interesse per gli sforzi compiuti in ambito civile in Afghanistan – per sapere: 1) quale sia la strategia del governo italiano per l’Afghanistan nella fase successiva al compimento della missione Isaf; 2) se il governo italiano intenda favorire una posizione comune sull’Afghanistan in sede europea e un maggior protagonismo delle Nazioni Unite; 3) quali iniziative intenda assumere il governo italiano per favorire il processo di pace e riconciliazione; 4) quali iniziative intenda assumere il governo per favorire la società civile afgana; 5) quali iniziative intenda assumere il governo per sostenere le attività svolte dalle Ong italiane che operano in Afghanistan.

 

* Afgana, associazione di sostegno alla società civile afgana