Karim ci aspetta davanti a un negozio di barbiere all’ingresso del campo di Tulkarem. Berretto, maglia e pantaloni di colore nero, imbraccia un mitra M-16 e tra le labbra stringe e aspira una sigaretta accesa da poco. «Andiamo», ci dice avviandosi sulla strada principale del campo profughi danneggiata dai cingoli dei carri armati israeliani. Karim, 21 anni, del Battaglione Tulkarem non ha paura di mostrarsi in pubblico a viso scoperto. E non teme di esporsi a possibili attacchi dei droni che Israele impiega ormai regolarmente per cogliere di sorpresa ed uccidere i combattenti palestinesi in Cisgiordania. Le ragazzine appena uscite da scuola lo guardano con ammirazione, le più spigliate lo salutano con un sorriso. I ragazzi invece lo scortano dentro il campo, quelli più intraprendenti si avvicinano per leggere un nome scritto sulla canna del mitra. «Quest’arma apparteneva a un martire caduto combattendo, se Dio vuole morirò per la Palestina allo stesso modo», ci dice notando la nostra curiosità per la scritta.

L’intera zona alla periferia di Tulkarem mostra i segni delle ultime incursioni dell’esercito israeliano. Le auto che percorrono la strada che collega la città ai due campi profughi – Tulkarem e Nur Shams – fanno lo zig-zag tra le buche, alzando un polverone. Negli ultimi mesi persino più di Jenin, la «capitale» della resistenza armata palestinese, e di Nablus con la sua «Fossa dei Leoni», Tulkarem e i suoi campi profughi sono stati il bersaglio di raid continui da parte dell’esercito e della polizia di frontiera di Israele. L’ultimo, pochi giorni fa, si è chiuso con 14 palestinesi uccisi. L’incontro con altri combattenti era previsto a Nur Shams, ma i bombardamenti dei droni e il passaggio dei mezzi blindati hanno trasformato il campo in una piccola Gaza, con decine di edifici civili colpiti e distrutti e le infrastrutture da riparare o ricostruire. «Non c’è sufficiente sicurezza ora Nur Shams ed è meglio vedersi in quest’altro campo» ci spiega Karim.

Tulkarem Cisgiordania foto di Michele Giorgio
foto di Michele Giorgio

Da quando Israele impiega i droni, la luce del sole arriva poco nel campo di Tulkarem. Gli abitanti hanno steso lunghi teli in alto, in tutte le strade, per nascondere i combattenti all’occhio degli aerei senza pilota. Eppure, la vita scorre come sempre. I bambini finita la scuola affollano i negozi che vendono merendine e bibite. Un anziano si infila nella minuscola porta della sua abitazione. Uomini e donne ci passano accanto gettando uno sguardo al gruppo che si sta formando intorno a noi. Altri due combattenti, armati di M16, il più grande avrà 20 anni, si uniscono a Karim, seguiti da quattro-cinque ragazzini. L’incontro avviene sotto una parete tappezzata di poster di giovani uccisi nell’ultimo anno. «Tulkarem è in fiamme, la resistenza cresce giorno dopo giorno nella nostra città. Per uno di noi che viene ucciso, altri dieci chiedono di unirsi alla lotta (armata)» ci dice uno che quattro combattenti che si presenta come Abu Atef. «Gli israeliani stanno massacrando la nostra gente a Gaza e distruggono le nostre case, prendono le nostre terre, uccidono i nostri ragazzi qui in Cisgiordania. La lotta armata è una necessità non solo un atto di coraggio» aggiunge alzando il mitra verso l’alto e mirando in un punto. Karim ci spiega che il Battaglione Tulkarem, fondato nel 2002, è composto da giovani di ogni orientamento politico. «A chi chiede di unirsi a noi – afferma – non chiediamo nulla. Non importa se sei di Hamas, Fatah, Fronte popolare e così via. L’importante è la lotta contro il nemico». Arrivano altri giovani. Uno di loro non gradisce la nostra presenza. «Sei italiano? Dovresti vergognarti. Il tuo paese appoggia Israele che sta massacrando i nostri fratelli a Gaza. Dovresti vergognarti per quello che fa il tuo governo contro il popolo palestinese. Solo la Russia sta con noi», dice fissandoci negli occhi. Gli amici lo calmano. Karim ci spiega che c’è molta rabbia per il «silenzio» dei leader occidentali per le stragi a Gaza e in Cisgiordania.

Tulkarem Nur Shams foto di Michele Giorgio
Tulkarem. Campo di Nur Shams (foto di Michele Giorgio)

Chiediamo di parlare con Mohammed Jaber Abu Shujaa, considerato il più coraggioso dei combattenti di Tulkarem. Da qualche giorno è un mito per tutta la città. Durante l’ultima incursione israeliana Abu Shujaa era stato dato per morto, assieme ad altri giovani colpiti da un missile sganciato da un drone. Dopo un paio di giorni è riapparso illeso facendo gridare al miracolo. Ci rispondono che è impossibile incontrarlo perché adotta misure di sicurezza eccezionali. È al primo posto nell’elenco di Israele dei palestinesi da eliminare. «La nostra esistenza è dedicata ad Allah e alla vittoria sul nemico sionista» interviene un altro giovane che dice di chiamarsi Yasser. «Non voglio vivere come mio padre e mio nonno – aggiunge – costretti a mendicare un lavoro in Israele per dare da mangiare alla famiglia. Io non voglio nulla da loro (gli israeliani). Sarà la liberazione a darci lavoro e una vita vera».

Chiediamo del loro rapporto con l’Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente Abu Mazen. «Tutti i palestinesi sono fratelli e i soldati di Abu Mazen noi non vogliamo combatterli, ma loro devono stare con noi e contro Israele» afferma Abu Atef. «Tante volte» racconta «i reparti speciali dell’Anp vengono qui a Tulkarem per arrestarci senza motivo, solo perché combattiamo contro Israele. Abbiamo il popolo dalla nostra parte, loro no». Ci dicono che l’incontro è terminato. È troppo pericoloso stare all’aperto, le incursioni dell’esercito israeliano sono improvvise. Abbiamo tempo per un’ultima domanda. Cosa sognano i giovani di Tulkarem, sperano nella libertà per cui combattono? «Quando saremo liberi potremo fare tutto ciò che ci piace, ora non possiamo far altro che combattere» dice Karim. «Io me ne andrò a Milano a mangiare i makkaroni» promette un ragazzino scatenando una risata generale. Per qualche secondo tra pacche sulle spalle e battute divertenti, quei giovani resistenti diventano ragazzi come tanti altri, ragazzi costretti a crescere in fretta. Ma solo per qualche secondo.