Lavoro nel settore del fotogiornalismo da quindici anni. In questo periodo ho coperto molti attacchi israeliani. Pensavo di essere un fotografo di guerra. Ma questa guerra mi ha fatto ricredere. È la fine.

I media sono legati a chi li finanzia, le politiche dei media sono legate al favore dei potenti. E i potenti enfatizzano sempre le debolezze dei deboli. Lo sviluppo tecnologico è stato enorme negli ultimi giorni di Gaza, prima della guerra. Lo si può osservare guardando i social media. Ma l’occupazione ce ne ha privato.

LAVORARE come giornalista palestinese in questo conflitto equivale al suicidio. Ci aspettavamo tutti di essere presi di mira e uccisi da un momento all’altro, soprattutto perché abbiamo perso decine di colleghi in vari attacchi israeliani deliberati e ripetuti. Sono sopravvissuto a morte certa più di una volta. Questo rischio non ha prezzo. Abbiamo perso le nostre case. Anche io ho perso la mia casa, per la quale avevo speso tutti i soldi che avevo, pochi mesi prima della guerra. Sto ancora pagando le rate. Anche la mia attrezzatura è molto costosa. Non c’è prezzo pari a nessuna foto che ho scattato di questo genocidio.

Io e i miei figli abbiamo sofferto la fame. Sono stato sfollato in diverse città. Ho trascorso molti giorni in una tenda in condizioni di vita difficili. Ho lottato ogni giorno per dare da mangiare ai miei figli e allo stesso tempo per coprire e seguire gli eventi attuali. È stato estenuante. Soffro ancora di disturbi psicologici, anche in Egitto. Ho paura del rumore degli aerei civili che trasportano passeggeri civili. Il rumore terrorizza ancora me e i miei figli. Ho ancora incubi di sangue e, ogni volta che ordino del cibo qui e lo mangio, ricordo quanto siano state difficili le ore trascorse da affamato. Filmavo bambini affamati mentre io stesso ero affamato.

Sono specializzato nella produzione di storie di interesse umano. Il nucleo del mio lavoro era incentrato sulla situazione umanitaria del genocidio. E condividevo personalmente quella terribile situazione con tutti coloro che fotografavo. Fotografavo la fame quando avevo fame, la sete quando ero assetato. L’immagine veniva dal cuore di una persona oppressa che stava vivendo la stessa sofferenza. È stato un periodo molto difficile.

LA MIA VITA quotidiana era una lotta: da una parte l’approvvigionamento di cibo e bevande per la mia famiglia e le esigenze della vita quotidiana, dall’altro il dovere di raccontare gli eventi. Ogni foto che scattavo a un bambino preso di mira era come se stessi fotografando mio figlio.

Il palestinese ama la vita. Ama il mare. Paga un prezzo alto per vivere in pace.

Il fotoreporter palestinese Abed Zagout vive oggi in Egitto, dove è dovuto scappare a causa delle minacce subite nei mesi dell’offensiva israeliana. Vincitore dell’Impact Awards 2023 e del Red Cross Photography Award nel 2008, con la moglie e i cinque figli ha vissuto il suo ultimo periodo nella Striscia in una tenda a Rafah.

Testimonianza raccolta con la collaborazione di Désirée Klain.

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Dopo aver perso l’attrezzatura fotografica e ogni mezzo di sostentamento, dall’Egitto Abed Zagout ha lanciato una raccolta fondi (https://gofund.me/e1effe6e). Hanno già aderito alcuni fotografi italiani, tra cui Luciano Ferrara, storico fotoreporter napoletano che ha messo all’asta le sue opere. L’iniziativa è nata all’interno del festival internazionale di giornalismo civile “Imbavagliati”, appena concluso a Napoli.