Il libro Pablo Picasso di Pepe Karmel, tradotto da Einaudi (pp. 199, 124 illustrazioni, euro 54,00), reca in copertina un quadro famoso, la Ragazza allo specchio del 1932, conservato al MoMA di New York. Il dipinto è in quel museo dal 1938, l’autore lo amava molto e piaceva tanto anche ai giovani artisti newyorkesi, ad esempio a Jackson Pollock (ben noto a Karmel) che ne trasse ispirazione nei primi anni quaranta. La ragazza allo specchio è una delle opere scelte dallo storico dell’arte americano per le splendide illustrazioni che ornano la sua monografia, un volume di alta gamma, arricchito da riproduzioni fedeli, vellutate, dense d’inchiostro.

Di tela in tela, di foglio in foglio (le sculture hanno nel libro un ruolo ancillare), scorrono sotto gli occhi di chi legge settanta e più anni di uno degli eroi maggiori della cultura del ventesimo secolo. Visivamente è un gran bel viaggio; quanto al testo non convince del tutto, sebbene Karmel sia un bravissimo studioso e un esperto di Picasso. La sua competenza occhieggia dietro ogni frase, descrizione o commento; eppure, se l’intenzione dichiarata all’inizio del libro era quella di offrire un «compendio» dell’opera di Picasso, il modo in cui Karmel ha deciso di svilupparla non sembra la più adatta al suo scopo.

Nel primo capitolo l’autore si libera dell’incombenza di dare conto della vita e, soprattutto, dei molti amori di Picasso, con i ritratti di fidanzate, mogli e amanti, unica concessione al pettegolezzo e, forse, ai desideri dell’editore primo, Thames & Hudson – con una disinvolta elusione dei rilievi critici che proprio su questi aspetti sono stati sollevati di recente da molte storiche dell’arte. Poi comincia a raccontare la sua storia, iniziando col trasferimento di Picasso da Barcellona a Parigi, all’alba del nuovo secolo, e chiudendo con una immagine del Bambino con la paletta, del 1971.

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Nei sei capitoli che compongono il libro Karmel alza di rado lo sguardo dalle opere illustrate; evita l’analisi formale e si sofferma invece su aspetti di contenuto che però mal si prestano a descrizioni quasi sempre limitate allo spazio di poche righe. A forza di sbriciolare l’opera di Picasso se ne perde di vista il movimento generale: per seguirne le fratture, i passaggi a ritroso, i balzi in avanti, la convivenza fra stili e idee diverse, non basta procedere per addizione, ma ci vuole la cloche di un pilota acrobatico.

Un esempio per tutti: fra la metà circa degli anni dieci e l’alba dei Venti nell’opera di Picasso convivono il cubismo sintetico dell’Arlecchino (1915) o dei Tre musicisti (1921) e il neoclassicismo de La fonte (1921) o del ritratto di Ol’ga seduta in poltrona (1918). Karmel parla di quest’ultimo quadro nella parte del libro dedicata alla vita e agli amori dell’artista, di Arlecchino e dei Tre musicisti nel capitolo in cui tratta il Cubismo; La fonte e altre opere «neoclassiche» sono discusse in una sezione intitolata Classicismo, che segue quella relativa al Surrealismo. Lontane e isolate l’una dall’altra, queste opere sulle quali Picasso lavorava nello stesso momento non sprigionano le scintille che produrrebbero se considerate, come è nei fatti, parte dello stesso contesto, in tensione e frizione reciproca.

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Diceva Leo Steinberg che per capire la complessità spaziale di alcuni quadri di Picasso bisogna rifarsi a «quelle splendide proiezioni attraverso cui i geodeti, i cosmografi e i matematici hanno per secoli reso la sfera del mondo su una superficie piana». È, o dovrebbe essere, un’indicazione preziosa anche per chi guarda al complesso della carriera dell’artista.