Si possono avere opinioni molto diverse riguardo quanto sta accadendo tra Iran e Israele, ma tutte dovrebbero fare i conti con un dato storico: per secoli l’Iraq ha rappresentato il principale argine all’influenza dell’Iran in Medio Oriente. Gli attori che, con tesi infondate, hanno portato al collasso dell’Iraq – e dunque permesso all’Iran di aumentare esponenzialmente la propria influenza nella regione – sono gli stessi che chiedono un intervento deciso per limitare l’influenza di Teheran.

Un assist alle ambizioni iraniane arrivò in particolare da Joe Biden (selezionò tutti i 18 rappresentanti chiamati a testimoniare nelle udienze del Senato americano sull’Iraq) e Benyamin Netanyahu: «Se Saddam verrà defenestrato – dichiarò Netanyahu al Congresso degli Stati uniti il 12 settembre 2002 – vi garantisco che avrà enormi ripercussioni positive sulla regione».

LA MANCANZA di visione e le contraddizioni insite negli errori del passato sono visibili anche in rapporto alla più stretta attualità. Quando Israele ha attaccato il consolato iraniano a Damasco (1 aprile), nessuno dei paesi occidentali ha condannato l’aggressione, o avallato l’intervento dell’Onu, come se le autorità israeliane avessero compiuto un’azione giusta o, al più, opinabile. Per contro, quando l’Iran ha minacciato (e poi implementato) una risposta, i paesi occidentali sono intervenuti in modo solerte, appoggiando l’intervento dell’Onu.

Ciò richiama alla mente anche la questione delle armi nucleari. L’unico paese ad aver usato ordigni nucleari contro civili (gli Stati uniti), e l’unico stato finora dotato di armi nucleari in Medio Oriente (Israele), mettono da tempo in guardia sui pericoli e l’immoralità insita nel fatto che l’Iran possa dotarsene.

Tanto le autorità iraniane quanto quelle israeliane – per non parlare dell’ex presidente Trump – hanno più volte minacciato di cancellare i rispettivi paesi «dalla faccia della terra»: non può essere quello il criterio per legittimare il «possesso a singhiozzo» delle armi nucleari in Medio Oriente, né può rappresentare un valido argomento per giustificazione l’enorme sforzo e i costi che vengono tuttora sostenuti affinché larga parte della regione sia gestita da regimi dispotici (a cominciare da al-Sisi in Egitto), dannosi per lo sviluppo delle società mediorientali, ma utili – attraverso strumenti come il Middle East Air Defence (Mead) – alle esigenze di Stati uniti e Israele. Per citare le parole di un ex generale israeliano a Michael Oren, ex ambasciatore del suo paese a Washington: «Perché gli americani non affrontano la verità? Per difendere la libertà occidentale, devono preservare la tirannia mediorientale».

Ciò premesso, le dinamiche a cui stiamo assistendo non sono prive di precedenti. Già in passato l’Iran ha lanciato droni dal suo territorio verso Israele (nel 2020) e quest’ultimo ha più volte subito attacchi missilistici provenienti dal Libano o dallo Yemen. Non meno frequenti i bombardamenti dell’aviazione israeliana contro paesi sovrani (Libano e Siria su tutti), gli omicidi di innumerevoli scienziati, generali e ingegneri iraniani e le strategie volte a diffondere virus come Stuxnet, creato per sabotare gli stabilimenti nucleari in Iran.

A essere cambiato è soprattutto il quadro regionale, sulla scia della quasi completa obliterazione di Gaza (e degli espropri in Cisgiordania) dove, secondo Save the Children, sta avvenendo «una uccisione di massa al rallentatore».

È in questo mutato contesto regionale che vanno inserite anche le recenti mosse di Hamas e delle autorità israeliane. Queste ultime hanno attaccato il consolato iraniano con l’obiettivo di obbligare l’Iran a rispondere con una rappresaglia necessaria a rinsaldare il sostegno militare e politico di Washington verso Israele, messo a dura prova da una «guerra» (le guerre sono tra stati e i civili possono fuggire) che ha causato al momento la morte di quasi 14mila bambini. Quanto ad Hamas, Yahya Sinwar mira a sfruttare l’escalation con l’Iran per tentare di unire diversi teatri geopolitici e spostare altrove il fulcro delle operazioni militari israeliane.

SU UN PIANO più regionale, Israele, per la prima volta dai tempi di Nasser, ha un rivale che sembra disposto ad affrontarlo militarmente. Pur nella consapevolezza dello squilibrio delle forze in campo, le milizie finanziate da Teheran in Yemen, Iraq, Libano e Siria hanno dimostrato di riuscire a colpire in modo asimmetrico il cuore degli interessi americani e israeliani nella regione.
Come se ne esce? Non esiste una ricetta univoca, ma un ruolo cardine lo dovrà avere la comunità internazionale.

Dopo aver ignorato la risoluzione 2728 che chiedeva un cessate il fuoco a Gaza, la rappresaglia iraniana ha spinto Israele a richiedere un intervento d’emergenza del Consiglio di Sicurezza Onu. È un fatto positivo che le autorità israeliane abbiano implicitamente ricominciato a considerare come utili le decisioni dell’Onu.

Ciò potrebbe facilitare l’implementazione di un cessate il fuoco che può spingere sempre più persone a prendere coscienza del fatto che, nelle parole del giornalista israeliano Meron Rapaport, «la guerra incessante con i palestinesi non può ottenere la vittoria desiderata e ciò che rimane è la verità: l’unico modo di vivere in sicurezza è attraverso un compromesso politico che rispetti i diritti dei palestinesi».