Di cosa siamo nostalgici oggi? Di cosa lo eravamo ieri? Tra la riedizione de Il giardino delle vergini suicide, l’esordio alla regia di Sofia Coppola di nuovo in sala da lunedì, e la presentazione del film a Cannes nel 1999 passano all’incirca gli stessi anni che separavano il romanzo di Jeffrey Eugenides trentenne, altro esordio di culto nel 1993, dalle vicende narrate. «Le cose non sono quello che sembrano», ce l’avevano già spiegato David Lynch e nel nostro piccolo Chi l’ha visto? Di più: certe cose a volte sembrano inspiegabili, forse lo sono. Risolta nelle prime pagine buona parte del plot – i suburbia, la scuola, la famiglia pazza – Eugenides e di riflesso Coppola lavorano sulla ricostruzione del sentimento della nostalgia, forse il grande tema di quegli anni ’90 che stanno per appaltare la nostra memoria alla Rete.

Nel 1975, in un suburbia del Michigan, distretto automobilistico in crisi e inquinamento ai massimi livelli, dietro le mura di una casa abitata da una famiglia «normale» come i Lisbon, padre professore di matematica e mamma casalinga molto cattolica, cinque figlie adolescenti si tolgono la vita. La prima a «spargere il virus», sentiremo dire, è Cecilia, 13 anni. Lux (Kirsten Dunst), che di anni ne ha 14 anni, punita per aver passato la notte fuori casa dopo il ballo della scuola assieme a un ragazzo bellissimo (Josh Hartnett), viene segregata con le altre in casa in un crescendo di silenziosa e inarrestabile follia. «C’era tutto l’amore, non ho mai capito perché», concluderà nel finale la voce fuori campo della madre, una Kathleen Turner più inquietante del solito. James Woods è l’inutile padre, Danny DeVito lo psicologo che innesca involontariamente il franare degli avvenimenti. Non c’è male per un esordio.

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Sofia Coppola, «Priscilla» è la sfida di una ragazza per essere indipendenteIl giardino delle vergini suicide è la parabola di una rivolta impossibile in altre forme? È il manifesto seducente di un autolesionismo chic? Un testo quasi-femminista nello spirito di Sylvia Plath e Anne Sexton? In parte sì. Pure, negli anni del suicidio di Kurt Cobain, il romanzo di Eugenides non pretendeva mai di parlare con la voce delle ragazze. Lasciava invece che a raccontare la storia fosse un gruppo di coetanei maschi, vicini di casa, dirimpettai e compagni di scuola. Avevano fatto in tempo a conoscerle, a desiderarle, qualcuno fugacemente a baciarle. Neppure loro hanno capito il perché. Nel presente delle disillusioni, quando – dirà qualcuno – si «è più felici con i sogni che con le mogli», le ragazze sad girl custodiscono per sempre un tempo che non si è mai realizzato e del quale si ha doppiamente nostalgia, perché non riguarda quel che è successo ma quel che ancora poteva succedere.

«NON TROVEREMO mai tutti i pezzi per rimetterli insieme», ripete nel finale la voce del narratore principale. Un’indicazione che Sofia Coppola nella sua sceneggiatura prende alla lettera: non una soltanto ma molte voci, in tempi differenti. Il ricorso – tipico di quegli anni – al simulacro della narrazione televisiva, le news in diretta dell’inviata di Canale 8, le testimonianze da docudrama e un’estetica da riviste per ragazzine che ogni tanto invade lo schermo. Da qui la cosa che forse si ricorda meno del film, l’umorismo dark che anima più di una scena. Con il direttore della fotografia Edward Lachman, lavorando per ricreare l’effetto delle pellicole anni ’70 a partire da foto e vecchi film, si può dire che la regista finisca per inventare un bel pezzo della nuova visualità retro. Lachman ripeterà l’impresa con Todd Haynes, Larry Clark, Todd Solondz. Al bianco e nero dei film indipendenti anni ’80 si sostituiscono saturazioni e viraggi verdini e rossastri che avranno il loro esito nell’onnipresenza della color correction digitale e da qui nei filtri Tumblr e Instagram. Il giardino delle vergini suicide lascia una lunga scia nella comunicazione digitale.

INFINE LA MUSICA. Il film è profondamente attraversato dall’estetica del videoclip – il fratello di Sofia, Roman qui alla seconda unità, si avviava a diventare una star del genere. Di solito era il contrario: i video cercavano legittimazione nel cinema, magari con risultati discutibili. Il giardino delle vergini suicide è un film compiutamente rock, si sarebbe detto un tempo, nella scia dei film adolescenziali americani benché il tema del rapporto tra maschile e femminile sovverta completamente ogni genere di romanticismo vecchio stile (visto nei film del padre Francis del decennio precedente, tipo Rusty il selvaggio). D’altra parte la prima punizione inflitta a Lux sarà quella di vedere bruciare nel camino la sua collezione di dischi rock: Kiss, Iron Maiden eccetera.

La redazione consiglia:
L’innocenza perduta delle ragazze di Sofia CoppolaNEL LIBRO di Jeffrey Eugenides la musica è capace di arrivare più vicino di ogni altra cosa al segreto delle ragazze, chiuse nelle loro camerette color pastello, piene zeppe di ninnoli e madonnine. Molte musiche del romanzo sono inventate, come la band e la canzone che gli darebbe il titolo. Sofia Coppola interpreta le indicazioni dello scrittore usando pezzi pop di gusto eccessivamente zuccheroso come I’m not in love dei 10 cc, oppure le canzoni della band hard rock Heart, tutte da recuperare in nome di una retromania neokitsch. Grazie alle sue frequentazioni tira fuori l’asso nella manica nel film, la colonna sonora del duo parigino Air, supercool all’epoca, che praticavano la stessa esplorazione della nostalgia anni ’70 declinata nelle sonorità della library music, space age, progressive rock.
Playground love nel titolo ricorda la scena centrale del film, la notte di Lux e Trip sull’erba del campo di football. In una delle versioni cantate sui titoli di coda si sente la voce di Thomas Mars dei Phoenix (altra band francese di supermoda), che nella vita vera sposerà la regista.